Francesco De Gregori Pezzi
2005 - SONY
Francesco De Gregori è sicuramente uno di questi, tanto che ogni suo disco viene salutato con lo scrupolo che si riserva alle opere più importanti del nostro tempo.
Ascoltando “Pezzi” e notando le sempre più numerose affinità con Bob Dylan, non ho potuto non chiedermi se De Gregori sia da considerare oggi come un vero artista o come un buon artigiano che armeggia con le canzoni.
Probabilmente tutte e due le cose e non è che poi la differenza sia così netta, ma serve a capire il lavoro che il nostro sta conducendo da un bel po’ di dischi a questa parte (se si vuole, per certi aspetti, addirittura dall’inizio della sua carriera).
È evidente che De Gregori sta lentamente costruendo un suono più rock, assemblandone i pezzi a forza di concerti e di dischi che non a caso sono più dal vivo che in studio. Ed è evidente che da buon artigiano sta portando avanti questo processo con la sua mano, fregandosene di chi lo vorrebbe più melodico o più politico.
De Gregori ha in mente un suono, aspro e diretto come la sua voce, e forse questo è il disco che più si avvicina e mette in atto questa idea: appoggiare i suoi testi e le sue canzoni sull’impianto del folk-rock americano, non per una questione di preferenza, ma piuttosto di riconoscenza e di appartenenza. Attenzione, si sa che De Gregori è un fan di Dylan, ma ciò che lui riconosce e partecipa con le sue canzoni è una storia di folk e di rock (che trova la sua massima espressione in Dylan e nella tradizione americana).
In questo disco c’è quindi da sbizzarrirsi nel gioco dei riferimenti: i rimandi a Dylan partono dalla title-track e proseguono tanto nel suono quanto nei testi e nella scrittura. De Gregori ha sempre indossato la maschera di Dylan ed oggi (finalmente) se l’è tolta non dando importanza ad alcuna somiglianza, presunta o evidente che sia.
È solo così, credo, che si può apprezzare questo disco: lasciandolo suonare per quello che è, nella sua omogeneità.
Non ci sono pezzi memorabili che entreranno nel canzoniere nazionale, ma piuttosto pezzi di storie, di una realtà in cui l’autore non si riconosce e in cui non può fare a meno di inciampare: De Gregori è giustamente impietoso nei confronti di un “pease di pecore e di pescecani” e si trascina a cantarlo suo malgrado in pezzi lunghi, asciutti, poco inclini alla nostalgia. “Ho messo la testa nel secchio / e devo bere per non affogare”, canta rappresentando non solo sé stesso.
La band lavora di chitarre, ma anche di organo e di mandolino, quest’ultimo spesso responsabile delle flessioni più cantautorali. L’identità italiana emerge in “Passato remoto” e soprattutto in “Le lacrime di Nemo – L’esplosione – La fine”, un pezzo quasi aulico che rimanda all’opera, ma è il rock a segnare il disco: “La testa nel secchio” ha un netto passo da folk-rock mentre “Il panorama di Betlemme” gira dalle parti del Mellencamp di “Human Wheels”.
Alla fine non siamo di fronte ad un disco indispensabile o importante, ma forse a quel disco che De Gregori si sta da tempo sforzando di fare.