Quando il titolo, o il nome del protagonista di un film, travalica i confini stessi della pellicola, allora vuol dire che è successo qualcosa di grosso, spesso importante. Siamo pieni di esempi di protagonisti entrati nel lessico culturale, in parte come conseguenza del successo e quindi della componente commerciale della pellicola, altre volte, in relazione al valore intrinseco dell'opera e il fatto che la stessa agisca quasi nel sottobosco culturale. Con
Zelig ci troviamo di fronte alla seconda casistica. Il significato corrente del termine mutuato dal film spiega in gran parte la trama: dicasi uno “Zelig” colui che patologicamente desidera talmente tanto compiacere gli altri da stravolgere il proprio pensiero, e non solo. Il termine più vicino nella nostra cultura potrebbe essere quello di “voltagabbana”, ma per questo nello specifico l’associazione della ricerca del vantaggio personale è forte. Il Leonard Zelig del film invece, è una persona che si trasforma al contatto con gli altri, non solo mentalmente, ma anche fisicamente. Questa ossessione per il conformismo, qui trasfigurata con quel tocco di fantasia, secondo il regista è metafora della predisposizione al fascismo. Un’idea, assolutamente geniale, che costituisce il 40% della riuscita del film stesso. L’altro 60% è dato dalla realizzazione tecnica: Allen decide di girare il tutto sottoforma di documentario, di cinegiornale, e riesce a farlo egregiamente, attraverso il direttore della fotografia, qua uno straordinario Gordon Willis, e grazie anche ad un lunghissimo lavoro di ricerca negli archivi, visto che la storia è ambientata negli Stati Uniti a cavallo tra gli anni ’20 e i ’30 del Novecento. Anche se oggi sarebbe ordinaria amministrazione, quarant’anni fa inserire il viso di Allen nelle foto o nei filmati d’epoca, non fu affatto facile. E poi il montaggio, fantastico. Tutte idee che Allen aveva già maturato e in parte proposto in episodi precedenti, ma mai in maniera così organica (vedere soprattutto l’esordio con
Prendi i soldi e scappa).
Insomma…per certi versi una rivoluzione per il mondo della celluloide!
Altra particolarità: il film fu girato, con grandissimo impiego di forze soprattutto mentali, assieme a
Una commedia sexy in una notte di mezza estate, e i due film furono anche il doppio esordio di Mia Farrow con il regista newyorkese. Uno ottenne scarso successo di pubblico e critica, l’altro (
Zelig) un buon successo di pubblico e ottimo successo di critica.
In questa breve pellicola, una serie di trovate geniali si susseguono: dalla danza del camaleonte, dalle interviste con Sontag e Bellow (quindi personaggi pubblici veri), dal mischiare materiale vero a quello falso, l’utilizzo di vecchi macchinari per girare, le interviste a sconosciuti non professionisti, l’uso delle luci, e così via. Il tutto per giungere all’obbiettivo: la creatura perfetta.
E così è,
Zelig, una creatura perfetta fatta di vari pezzetti, una sorta di moderno Prometeo. Una creatura, che al pari del protagonista della novella di Mary Shelley, fu lunga e difficile da partorire, a fronte di una scrittura invece facile e veloce.
Come sempre, Allen non si sbilancia mai, non esalta la pellicola, ma, a differenza di molte altre sue opere, non si trovano accenni a cose che a posteriori cambierebbe o rifarebbe. Questo “silenzio” è importante, magari sotto sotto lo trova perfetto, o quanto meno privo di errori o in parte incompiuto. Un film che anche la gente e la critica ama, e col tempo non perde il suo smalto. Probabilmente con quest’opera del 1983, Allen trovò il film “definitivo” del genere…quale genere? Genere Zelig, naturalmente!