The Zen Circus Vita e opinioni di nello scarpellini, gentiluomo
2005 - I Dischi dell’Amico Immaginario / Audioglobe
Lo sono già per il fatto che fanno rock’n’roll, ma lo sono ancor di più per come lo fanno.
Basta vederli dal vivo per rendersene conto. O basta ascoltare questo loro nuovo disco. Il titolo fa pensare ad un concept o comunque ad un ulteriore evoluzione di quello che era stato “Doctor seduction”, invece Appino, Ufo e Karim buttano fuori una dozzina di pezzi assurdi, irriverenti, sboccati.
Sin dall’iniziale “Dead in july” strumenti e voce suonano volentieri sbilanciati, come se proprio non riuscissero a liberarsi della scimmia del rock’n’roll.
Eppure “Nello Scarpellini” funziona alla grande proprio come succedeva a certi dischi tra gli anni ’60 e ’70 (e succede ancora se li andate a riascoltare).
Il suo pregio è proprio quello di buttarsi a corpo morto nel rock’n’roll, senza curarsi di cosa, come e perché: addirittura gli Zen Circus pubblicano questo disco con tre titoli, in italiano, in inglese e in francese e cantano in altrettante lingue.
Si potrebbe pensare ad un lavoro eterogeneo, sconclusionato, e in effetti così è, almeno in parte, ma è un giudizio che non conta e che lascia il tempo che trova di fronte a quanto scaturisce dal dischetto: gli Zen Circus saranno anche stati ad Eventi Pop, al Tora!Tora!, Neapolis e al Milano Film Festival, ma suonano ancora tremendamente punk e garage.
Non a caso “I bambini sono pazzi” potrebbe essere una risposta agli Who di “The kids are alright”, “Hellakka” è una replica svaccata dei Clash, “Fino a spaccarti due o tre denti” è in aria di una “Ticket to ride” assai più fuori e in “Visited by the ghost of D.Boon” ricompare il fantasma dei Minutemen. In ogni pezzo il risultato è eccitante, con le chitarre che, invece di lanciarsi nei soliti assoli e giochi di accordi, effettuano una serie continua di false partenze, finendo così per sfottere ogni schema e modello. La voce di Appino poi potrebbe cantare qualunque cosa quando si cimenta col francese come pure con qualche pezzo in italiano, ma trova sempre un modo per divincolarsi, tra foga e ritmo. Lo stesso quando si diletta con qualche pop trick o quando si “impegna” in una “Colombia” che sembra i Creedence Clearwater Revival rifatti dagli Screaming Trees.
Ovvio che in un contesto del genere il pezzo migliore del disco risulti quello più sfacciato, quello più ruffiano, ovvero “Aprirò un bar”, che potrebbe essere un hit se portasse la firma di Vasco Rossi.
Alla fine poi il trio non riesce più a trattenersi e si sfoga in un paio di bonus-track suonate con la voglia di urlare e di spaccare tutto, a coronamento di una performance che tanto ricorda quelle delle più vere e distruttive punk bands.
È la conferma che sono proprio dei cazzoni e che hanno le palle per fare rock’n’roll.