Cesare Basile Storia di caino
2008 - Urtovox
Già il titolo è una conferma di come questo songwriter catanese, ormai trapiantato a Milano, continui a lavorare su un immaginario di sofferenze umane legato alla Bibbia. Quello di Basile è un percorso a ritroso che va a recuperare la tradizione popolare e cristiana per indagare le forze dell’uomo e del suo destino.
Verrebbe da pensare che “Storia di Caino” concluda una trilogia folk cominciata appunto con “Gran calavera elettrica”, ma in realtà si tratta di una via intrapresa passo dopo passo a partire almeno da “Closet meraviglia”. Non a caso quell’album iniziava con “Candelaio”, una canzone sull’assenza, che è il tema sottinteso a questo ultimo lavoro.
È un vero e proprio scenario della mancanza quello descritto in queste canzoni: Caino è il fratello dimenticato, simbolo di personaggi a cui manca sempre qualcosa per vivere in pienezza o almeno sopravvivere.
Se “Gran calavera” scavava nella terra ed “Hellequin song” riportava in vita spiriti reietti, “Storia di Caino” focalizza l’attenzione su ciò che l’uomo ha perduto: amore, dignità, meraviglia, giustizia, fede.
Anche gli arrangiamenti sono spogli, ma quelli che ci sono si fanno sentire eccome, dando prova di quanto Basile sia ormai maestro nel lavorare di sottrazione. Nell’insieme l’impianto musicale è più vario di quanti sembri: alla classica strumentazione folk-rock si aggiungono tocchi di dobro, banjo, armonica, didjeridoo, piano, organo, violino, diatonica, lap steel, mandolino, harmonium ed anche buone dosi di vocals che sussurranno qua e là, come cori di donne in preghiera.
C’è una canzone cantata dal “Fratello gentile” Robert Fisher (Willard Grant Conspiracy): “What else have I to spur me in to love” è una ballata profonda, scritta a quattro mani, ben inserita nell’andamento di una scaletta che sembra rivolgersi e scendere man mano verso il fondo di un pozzo. Anche il canto di Basile, a tratti quasi raspato, è funzionale al contesto e a più riprese rimanda alla sobrietà di Fabrizio De Andrè.
Ci sono colpi rock come “Canto dell’osso” e la title-track e c’è anche parecchia rabbia, strozzata negli agghiaccianti riferimenti all’attualità de “Gli agnelli” e de “Il fiato corto di Milano” (dedica spietata).
Di fronte a tanta assenza i personaggi rimangono appesi “All’uncino di un sogno” che non si realizza, esigono una fede che non hanno e ricorrono ad una preghiera in cui non trovano rifugio (“Maria degli ammalati”).
Alla fine “Storia di Caino” lascia di fronte ad un vuoto “pieno” di interrogativi.