Cesare Basile

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Cesare Basile Canti all’osso

01/04/2008 di Christian Verzeletti

#Cesare Basile#World#Folk #Blues

      
   Canti all'osso

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Catania e Berlino: basterebbe evocare queste due città, con i loro colori tanto vividi quanto spenti, tanto abbaglianti quanto scuri, per descrivere la musica di Cesare Basile.
Siciliano di nascita, ma formatosi musicalmente nella capitale dell'allora Germania Est, questo songwriter ha sviluppato uno stile che riflette la luce di una terra brulla, arsa dal sole, e le ombre di una città muta, prigioniera della propria storia. Da una parte una sicilianità rurale e dall'altra un'urbanità grigia, entrambe chiuse su sé stesse.
Detto in altre parole, il folk e il rock più intestini.
Oggi Basile vive a Milano, che è un compromesso, più o meno a metà strada, tra i due estremi: agli occhi di un "terrone" emigrato probabilmente un luogo altrettanto recluso per via della sua cappa di smog e del suo "fiato marcio".
Ma andiamo con ordine.

. Pietra bianca

Cesare Basile nasce il 7 febbraio del 1964, a Catania si diceva, e del meridione si porterà sempre dietro lo sguardo atavico, segnato da un tempo lento, quasi opprimente nel suo scorrere (provate a guardarlo negli occhi e vi sembrerà di scrutare due fosse che ancora si stanno scavando).

Dopo aver mosso i primi passi con i Candida Lilith, i Kim Squad (questi a Roma) e i Quartered Shadows (di ritorno a Catania), si trasferisce a Berlino, dove il muro è appena crollato: "Catania a un certo punto era diventata una gabbia autoreferenziale, avevo bisogno di capire come stessero realmente le cose e Berlino, in quanto città di frontiera e crocevia d' Europa, mi sembrava il posto più adatto".
Qui la sua musica comincia ad assumere un respiro non proprio salubre, ma comunque vitale: con i Quartered Shadows registra "The Last Floor Beach", prodotto da Mark De Reus, e apre per Nirvana, Hole e Primus. Il suono è molto underground e il gruppo si scioglie, mentre lavora al terzo disco. L'esperienza berlinese è comunque fondamentale per assumere una cultura di rock europeo ed americano, che Cesare fonderà con la parte che più gli è congenita della tradizione italiana:

"Berlino è il luogo che più di ogni altro nella mia vita mi ha fatto dire "da qui non si torna più indietro", una linea netta fra quello che ero stato prima di allora e dopo. Cantavo già in italiano, però al mio ritorno mi sono concentrato molto di più sull' uso della lingua per piegarla a strutture musicali che ben poco hanno di italiano, almeno in senso tradizionale"..

Levigate così le proprie capacità a suon di rock underground, blues e folk, Basile torna a Catania con un bagaglio e soprattutto con una coscienza ormai adulta.


. Primo concime

Nel 1994 incide il suo primo disco solista, "La pelle", che esce l'anno successivo per la Lollypop Records, con la produzione ancora di Marc De Reus. Suonato con Gaetano Messina (violino), Vito Porto (hammond, piano, fisarmonica), Massimo Ferrarotto (batteria), Daniele Bontumasi (basso) più membri dei Quartered Shadows e degli Uzeda, l'album è importante, perché viene considerato uno dei migliori esordi di quell'anno, ma soprattutto perché comincia a presentare quel mondo di sconfitti e di ferite su cui Basile edificherà la propria poetica.


Ci vogliono quattro anni per avere un seguito, a conferma di come Cesare sia uno che lavora con un passo che non è quello del music business. "Stereoscope" esce nel 1999, per la Mercury / Blackout, e vede l'ingresso in formazione di Marcello Sorge, batterista la cui presenza diventerà fissa in tutta la produzione successiva. Altro contributo significativo è portato dalla voce di Marta Collica, anche lei una costante d'ora in poi. Il cammeo poi di Mauro Ermanno Giovanardi (La Crus) è solo la conferma più evidente di come la musica di Basile si stia facendo pezzo dopo pezzo più folk, più autorale, e non solo per via del canto in italiano.


. Fuori da questo picchiare di testa

Questa tensione è confermata da "Closet meraviglia" (2001, Extra Labels), che si avvale della presenza in fase di produzione di Hugo Race, spirito affine formatosi con Nick Cave ("Con Hugo ci siamo incrociati a Berlino, ma abbiamo cominciato a suonare insieme al mio ritorno a Catania. Lui non suonava già più con i Bad Seeds ed era già coinvolto in diversi progetti, tra cui Sepiatone con Marta Collica"). Il lavoro sugli arrangiamenti è più sviluppato grazie agli archi diretti da John Bonnar (Dead Can Dance), ai fiati di Roy Paci, alla presenza diffusa di Marcello Caudullo (chitarra, Fender Rhodes, organo, marranzano, theremin) e agli interventi di Lorenzo Corti (chitarre).
"Closet meraviglia" è disco di calce e pece, con una coltre spessa che non riescono a sciogliere nemmeno il sesso e l'alcol onnipresenti. Basile non tradisce le sue origini underground e le sue ossessioni recondite, anzi, proprio su quest'ultime focalizza la propria attenzione lasciando intuire che lì c'è qualcosa da scoprire:

"Qualche cosa lì
da qualche parte
qualche cosa lì fuori
fuori da questo picchiare
di testa
qualche cosa lì fuori
giusto fra me e la scena
fra la fame ed i morsi
fra il tuo corpo e la cena"

È evidente quanto Cesare sta improntando il suo songwriting su un'essenzialità primordiale, tanto dal punto di vista testuale quanto musicale. Brani come "Nostra signore dei coltelli" e "La suonatrice di hammond" scavano in storie che hanno un'eco antica, in destini segnati dal tempo o forse da un'entità superiore. Ed i personaggi vivono più di privazioni che di desideri, più di assenza che di carne, più di pezzi che di corpo.
Per cantare tanta sofferenza, il rock'n'roll va allora portato ad un livello più profondo.

. Cantico dei taratati

Quel livello viene toccato con "Gran calavera elettrica" (Mescal, 2003), disco più del compimento che della maturità: qua il rock e il folk si calano negli antri di una terra sciancata, nella necessità di una fede che non salva.
Canzoni spettrali, come l'illustrazione di Posada a cui è rubato il titolo: scheletri con enormi sombreri in testa che affrontano la vita di tutti i giorni (in spagnolo "calavera" vuol dire "teschio").
Il Caronte della situazione stavolta è John Parish, già produttore di PJ. Harvey, Giant Sand, Sparklehorse e altri. Con lui, oltre alla "solita" band, ci sono le voci femminili, anche queste spiritate, di Nada, Valentina Galvagna e Marta Collica.
Si canta della morte, di una donna e di Nostro Signore seguendo la strada di Johnny Cash e di Fabrizio De Andrè, di Faulkner e di Uccio Aloisi: i brani occupano uno spazio smarrito tra il folk ed il blues e profumano, a tratti puzzano, di una terra in odore di reazione.

Smuovendo il terreno fino alle radici, Basile arriva alla Bibbia trovandovi un humus colmo di immagini e di un linguaggio quanto mai adatti al suo popolo di esclusi:

"Nell'orto degli ulivi
a perderci eravamo in due
passando da una stanza all'altra
cercando le risposte e il senso"

Non vi è nulla di pacificato: il dolore, l'onore, il sacrificio, l'amore, la morte, l'inferno non danno tregua. Quella di Basile non è una visione né salvifica né confessionale, ma piuttosto apocrifa, dannata, spietata.
La Sicilia è ancora più presente con una taranta che mantiene l'uomo nel suo proponimento, con suoni asciutti che non hanno bisogno di molte parole.
Quella di "Gran calavera elettrica" è una parata di anime perdute che sfocerà in "Hellequin song".

. L'armata di Arlecchino

"La canzone di Hellequin" evoca lo spirito che era a capo dei Cortei dei Morti nel Medioevo. Come già cantato con "In coda", brano presente in "Gran calavera elettrica", la processione della morte è metafora di quanto e quanti non trovano pace: peccati, ossessioni, guerre, assassini.
Oltre alle anime conosciute in precedenza, vi prendono parte Manuel Agnelli (Afterhours), Stef Kamil Carlens (dEUS), Jean Marc Butty (P.J. Harvey) e Giorgia Poli (Scisma, Sepiatone), reduci dal progetto Songs With Other Strangers. E poi tanti, tanti spiriti provenienti dalla musica del Delta: non a caso lo stile è più blues, con alcuni brani che tornano ad essere cantati in inglese proprio per evocare i demoni di quella tradizione.
"Hellequin song" (Mescal, 2006) è un disco fatto di una ricerca combattuta tra le ombre del rock, la musica popolare, la figura di Cristo e il blues.


"Massacrato di botte
con il cuore spaccato
per aver rovistato
fra le cose della vita"

Sul carro di Arlecchino Basile mette a nudo la stupidità e la volgarità dell'esperienza umana, ma allo stesso tempo ne coglie anche il senso. Nei suoi risvolti più mortali, nelle sue forze più interiori.


. Il pozzo dell'assenza

In questo scenario tanto sofferto manca solo la rappresentazione del Male, inteso come assenza di bene, come impossibilità di scelta.

"Storia di Caino" (Urtovox, 2008) incarna la figura di un uomo abbandonato prima che condannato, dimenticato prima che giudicato. Caino è parente stretto di quel "Fratello gentile" protagonista di una delle canzoni portanti dell'album precedente. È un disco "del vuoto e dell'arsura", prodotto ancora da John Parish e condiviso questa volta con Robert Fisher dei Willard Grant Conspiracy. Ogni canzone constata la povertà in cui versa l'animo umano, con un nutrito gruppo di voci, spesso di cori, che sibilano sotto gli strumenti. Il canto stesso di Basile si avvicina a quello di De Andrè e a tratti si fa preghiera, colma di rabbia e di sete.
Alla fine quella ricerca, che molti altri songwriters avrebbero chiuso in una trilogia risolutiva, rimane aperta sul mistero del baratro umano. E le canzoni di Basile continuano ad interrogarci su quella che è l'angoscia del vivere "col fiato grosso di un bacio mai avuto":

E tutto questo amore mio
è per la fame e i barattoli vuoti
uomini appesi all'uncino di un sogno
alle promesse tatuate sul collo
in un giorno d'infanzia
come se nulla potesse cambiarci
e chi lo sa
forse nulla è cambiato
siamo giusto rimasti da soli"


. Discografia

1994 - "La pelle" (Lollypop Records)
1998 - "Stereoscope" (Black Out)
2001 - "Closet meraviglia" (Extra Label)
2003 - "Gran calavera elettrica" (Mescal)
2005 - "Hellequin song" (Mescal)
2006 - "14.06.06" Live cd + dvd (Mescal)
2008 - "Storia di Caino " (Urtovox)