Cesare Basile Hellequin song
2006 - Mescal / Sony
Già il titolo è un rimando all’immaginario medioevale: Hellequin era una cavaliere che stava a capo dei cortei dei cosiddetti morti inquieti e sottintende una visione popolare, enigmatica e scarnificata, in cui si mescolano sacro e profano.
Forse ancora più del suo precedente, questo è un disco inquieto, spezzato, attraversato da spiriti che vanno e vengono: per prima cosa ci sono cinque canzoni cantate in inglese che interrompono la tensione, creando un intermittenza in un ambiente già poco illuminato. Poi ci sono gli arrangiamenti, parchi come nell’indole di questo cantautore, e i musicisti che sono più o meno gli stessi che avevano partecipato all’esperienza “Songs with other strangers”, un’accolita di stranieri, di straniti, che di tanto in tanto si ritrovano a suonare.
Tutto questo contribuisce a rendere “Hellequin song” più estemporaneo di “Gran calavera elettrica” che rimane finora il punto più alto nella discografia di Basile: questo è invece un disco altalenante, ciondolante, proprio come quel carro di Arlecchino che, memore della tradizione medioevale, attraversa il paese con un carico di maschere attonite e di ghigni sfigurati.
Si potrebbe anche dire che è un disco più minimale: a parte alcuni improvvisi momenti di piena, gli strumenti suonano disincantati, quasi si limitassero a creare degli intermezzi anche quando intervengono saltellando, come ne “Il deserto”, o quando si insinuano sul fondo dei pezzi, come in “To speak of love”.
Ci sono tracce di blues, come aveva lasciato inture il singolo premonitore di “Fratello gentile”: è un blues trascinato che Basile sceglie di mantenere in inglese con un rantolo di voce, un banjo e qualche altra eco.
E ci sono le canzoni che si costituiscono in ogni senso come dei pezzi: scampoli di dolore, ferite aperte, rancori, rabbia e sensi di colpa che hanno le immagini di un Cristo, di un cranio, di un corvo.
In mezzo a tante apparizioni le tracce che più rimangono ad interrogare sono quelle di “Finito questo”, che scruta il senso del peccato, de “Il deserto” con un organetto che gira tra un popolo senza scampo (“piscerai sulla Banca d’Italia / ma non fuggirai il grembo”) e di “Usa tutto l’amore che porto”, una canzone d’amore alla Basile con tanto di sega e ancora organetto. E poi la title-track che con la sua “falange di dannati” ha più forza di una qualunque canzone pacifista.
Sul carro di Arlecchino ci sono tra gli altri John Parish, Hugo Race, Manuel Agnelli e Stef Kamil Carlens (ex dEUS), ma non si tratta di un’ospitata felice. Piuttosto di spettri che tentano di cantare le miserie umane.