Questo singolo, oltre a sancire il passaggio alla Mescal, dà conferma della collaborazione con John Parish, già produttore di P.J. Harvey, Sparklehorse e , tra i tanti. Hugo Race è ancora presente, lo si sente apparire al dobro in “Apocrifo” e ovunque, come uno spirito che accompagna idealmente ogni passo.
Se il precedente disco era uno scoglio su cui si infrangevano la canzone d’autore e una poesia scarna, queste quattro tracce sembrano metterci di fronte ad una rupe scavata dal vento, nel mezzo di una terra arida e desolata.
Basile ha l’aspetto di un nazareno, salito sul monte per scrutare l’umanità. Il suono è asciutto, come se l’autore avesse cercato di trarre auspicio dalla terra scavando nella roccia battuta dal vento: ne ha tratto forme dall’aspetto primitivo, come il folk strabico di “In coda” e il blues biascicato di “Waiting for the check blues”, ora suonate senza alcuna attesa.
Forti reminiscenze bibliche, un’atmosfera desertica, un De Andrè con radici siciliane e con un’attitudine randagia alla Howe Gelb. Vita e morte sorgono continuamente dalle crepe di un terreno, nei cui anfratti si insinuano ora un’armonica, ora una chitarra.
Basile canta “Apocrifo” senza alcuna pietà con quella voce sferzante, già sentita anche ne “L’albero di Giuda”, anticipata sulla compilation “Tora! Tora! 2003”. Con lui ci sono Marta Collica, al piano Rhodes e all’Hammond, e Hugo Race a stridere al dobro, ma l’interpretazione è quanto di più solitario ci si possa aspettare, quasi fosse il canto di un novello Giovanni Battista: “perché hai sparso l’aceto / nelle stanze del vino / consumato le labbra / ad un muro di baci e promesse / così pensi che basti moneta / al prodigio / e la spiga / e l’agnello”.
Sulla stessa linea è anche l’ultima traccia, giustamente definita un demix piuttosto che un remix della title-track, in una versione ancora più solitaria, eremitica.
“In coda”, titolo curioso per un singolo che anticipa l’album, sono quattro frammenti precipitati dall’alto, dotati di una consistenza tale da arrivare a noi intatti.
L’album, che si intitola “Gran calavera elettrica”, dovrebbe quindi rivelare un corpo d’origine, da analizzare e decifrare come un reperto raro.