Bruce Springsteen Wrecking Ball
2012 - Columbia records
Da qualche anno, purtroppo, Springsteen sembra però sospeso tra la voglia di confermare una vitalità commerciale e la tendenza ad ostentare rinnovamenti di suono non richiesti e non proprio riusciti: soprattutto a livello di produzione, questo Wrecking Ball pare un disco confuso e velleitario, radiofonico nel senso peggiore (e lo snob musicofilo annuirà risoluto), dove persino le liriche, da sempre fatte d’immagini semplici e forti e ben più raffinate di quanto non si sospetti, restano incerte, vagamente nazional-popolari, intrise di una retorica per una volta sospetta, sebbene interpretate con quella sincera umanità che da sempre rappresenta il marchio di fabbrica del personaggio e la credibilità dell’artista.
Il risultato di questa nuova analisi del Sogno Americano e della realtà degli States, che sulla carta prometteva bene, in verità non convince: quel che resta della E-Street Band (che infatti non compare sulla costa del disco, rompendo il binomio storico), si fa accompagnare da una serie di ospiti male amalgamati alla ricerca di un rock muscolare ed epico che parrebbe più adatto a Bon Jovi, mentre la voce di Bruce si conferma invecchiata nel migliore dei modi, senza pose e con una raffinatezza che per una volta andrebbe riconosciuta anche dai suoi detrattori. La ricerca dell’inno e dello slogan porta We Take Care of Our Own dalle parti di The Rising (2002), con coretto finale di discreta stucchevolezza; più asciutta Shackled and Drawn punta sull’effetto gospel mentre Jack of All Trades, è una bella ballata, sebbene prevedibile, illuminata dalla sezione di fiati che sostituisce il compianto Clarence Clemons ma penalizzata da inserti elettronici del tutto pleonastici e da un assolo finale di Tom Morello che porta tutto verso il rock da stadio. Death to My Hometown, che vorrebbe forse ammiccare alle atmosfere delle Peter Seger’s Sessions, presenta un’Irlanda da parodia (più Boomtown Rats che Pogues, per intenderci); This Depression è debole fin dal titolo, la title track suona pomposa mentre You’ve Got it ricorda certe cose di Tunnel of Love (1987), ma la voce è in gran forma, Rocky Ground, con l’ormai discusso inserto hip-hop di Michelle Moore, sembrerà ad alcuni coraggiosa e ad altri imbarazzante, mentre Land of Hope and Dreams suona meno convincente che dal vivo ma conferma un tocco springsteeniano, per cedere il posto ad una graziosa We Are Alive orientata verso il country, con una divertente citazione di Ring of Fire.
Rincuorano, in parte, le due bonus tracks, American Land sempre irish ma più credibile (e con voce da brivido) e Shallowed Up (In the Belly of the Whale) che è forse la traccia migliore dell'album, almeno per chi lo ha in special Edition: un brano lento, sussurrato, con un timpano atipico e un tensione che rimanda allo Springsteen più notturno, senza ricordare alcun altro brano in particolare. Il rovescio della medaglia è che i due brani bonus fanno rimpiangere un album che poteva essere diverso.
Inutile il confronto con i capolavori del passato, inutile la nostalgia di questo o quel brano: il Boss di oggi ne ha passate abbastanza, si è speso molto, ha gestito una carriera fatta più di luci che di ombre e sarà comunque amato dai fans. Quanto al disco, può essere comodamente ignorato a favore della speranza, ultima a morire, che il cantore dell’America popolare e blue collar possa tornare con un capolavoro, come fece dopo il fiacco Human Touch (1992) regalandoci lo splendido The Ghost of Tom Joad (1995). In fondo, poi, a Lou Reed si è perdonato anche di peggio…