Bruce Springsteen The Promise
2010 - Columbia/Sony Music
Ogni fedele springsteeniano, di conversione più o meno recente, può divertirsi a rintracciare in queste Lost sessions richiami e riferimenti a cose che verranno, fotografando un momento cruciale nella grande officina musicale del ragazzo di Freehold. La metafora religiosa non è casuale, visto che Darkness trabocca di riferimenti biblici, tra la terra promessa ad Adamo, cullata nei sogni romantici di Born to run, e l´approdo a un destino da Caino, segregato ai margini della città. E così già ai primi ascolti si scopre che Come on (Let´s go tonight) suona come Factory, Candy´s boy è la futura Candy´s room a velocità dimezzata e Spanish eyes anticipa addirittura il testo di I´m on fire.
Sarebbe però un esercizio sterile: questo è a tutti gli effetti “il disco che non è stato”, una parentesi fatta di soul e rhythm´n´blues, rockabilly e doo woop, volutamente fuori moda, lontana dal rock epico di Born to run e dalla struttura finale di Darkness, che punterà su un sound tagliente, spoglio, quasi arido. “Big choruses, big melodies, rich arrangements” sono il punto di partenza di Bruce in queste sessions tra il 1977 e il 1978, mentre “power, directness and austerity” definiscono il punto d´arrivo: in mezzo ci sono la frequentazione con i singoli punk acquistati e consumati a New York City e il fondamentale lavoro di ripulitura del suono, documentato nel dvd che racconta la genesi del disco.
Una scelta anche politica, che Bruce rivendica oggi come ieri: privilegiare rispetto al sound disimpegnato e festaiolo il grande tema della disperazione di fronte alle speranze frustrate del sogno americano, che si risolve in un viatico di solitudine da consumare tra strade inospitali e buie periferie. La raccolta si apre con una Racing in the street che il violino di David Lindley colora di inedite tinte rootsy, così come profuma di radici Come on (Let´s go tonight). Ma nei due cd è spesso il ritmo a fare il pezzo (Gotta get that feeling, Outside looking in, Ain´t good enough for you), con gran contorno di fiati (It´s a shame, che starebbe alla perfezione su qualsiasi disco di Southside johhnny) ed echi spagnoleggianti sparsi ovunque (Spanish eyes).
Se proprio vogliamo cercare tracce di sviluppi futuri dentro The promise, il pensiero corre piuttosto a The river, il doppio del 1980, di cui troviamo corpose anticipazioni, soprattutto delle lunghe ballate struggenti per piano, organo e voce che caratterizzeranno quel lavoro: in questa linea sono One way street (con un grande Clarence Clemons al sax), Wrong side of the street, The little things my baby does e The brokenhearted, uno dei picchi di The promise, con Bruce a risuscitare senza timori il fantasma di Elvis. Il nucleo di canzoni memorabili è però alla fine del secondo cd, con un pugno di brani che avranno a lungo sgomitato nella testa di Bruce a caccia di un posto nella tracklist definitiva di Darkness. Difficile rinunciare a un accattivante bozzetto notturno, raccontato alla Lou Reed, come City of night, o agli struggenti melodrammi di Breakaway e The promise, piccole sceneggiature cinematografiche incorniciate da sontuosi arrangiamenti di fiati e archi.
Ma è ancora l´austerity springsteeniana a condizionare la scelta: solo “musica dura per gente in circostanze difficili”, come spiega lui stesso nelle pagine introduttive. Un´adesione assoluta, senza cedimenti, al concept di Darkness, che a tanti anni di distanza ha retto alla prova del tempo, e rende ancora merito al ragazzo di allora.