Bruce Springsteen Magic
2007 - Columbia
La sensazione era stata ribadita da quella “Radio nowhere” lanciata in rete e in radio con largo anticipo a mo’ di esca: un pezzo tirato con le chitarre in crescendo al punto da suonare roboante come un singolone da stadio (“I just want to hear some rhythm / I want a thousand guitars / I want pounding drums / I want a million different voices speaking in tongues”).
Per molti versi “Magic” è proprio così: un disco rock pieno di energia, molto high-energy, grazie alla spinta della E Street Band e alla produzione di Brendan O’Brien. Probabile che i fans ne andranno pazzi e che invece gli appassionati di vecchia data ne rimarranno piuttosto delusi perché i due fattori (la E Street Band e O’Brien) non sono proprio complementari. E soprattutto perché manca il terzo fattore, quello indispensabile, ovvero le canzoni, qua troppo in incognita: in tutta la scaletta non c’è un pezzo all’altezza delle cose migliori di Springsteen e, per quanto la media sia comunque accettabile, non ci sono brani memorabili.
Alla fine a spiccare di più è proprio “Radio nowhere”, il che la dice lunga sul valore di un disco a cui probabilmente avrebbe giovato una gestazione più lunga, con tanto di preparazione e selezione meticolosa “alla Springsteen”.
“Magic” è invece un disco da rock star e in questo senso sono azzeccati sia il titolo (pessimo) che la copertina (insulsa).
Non è tutto da buttare, ma è tutto troppo nelle norma di un pop-rock internazionale colmo di suono, di archi e di vocals che anestetizzano i pezzi. A tratti la E Street Band si fa sentire, ma si tratta di passaggi sporadici che rimangono contenuti e provocano nostalgia, soprattutto nelle keyboards, nel piano di Bittan (troppo limitato) e nel sax di Clarence Clemons (che avrebbe potuto bucare molto di più).
L’impressione di trovarsi di fronte un disco a metà strada tra “Human touch” e “The rising” è forte, anche perché la scrittura tratteggia sì uno scenario oscuro ed incerto in linea con l’attualità, ma lo fa senza la solita forza narrativa.
Ci si trova così con una scaletta infarcita di pezzi come “Livin’ in the future” e “Girls in their summer clothes”che non valgono più di tanti inediti disseminati tra bootleg e studio outtakes. I pochi veri slanci e qualche fugace apparizione di Asbury sound non vengono sviluppati, ma spinti con enfasi anche quando Springsteen si concede all’armonica.
In chiusura ci sono una discreta “Long walk home” e una ghost-track dedicata all’amico scomparso Terry Magowers, ma nel complesso c’è poco da emozionarsi.
Più mestiere che magia.