Bruce Springsteen Devils & dust
2005 - Sony
Quelle attese vengono tutte deluse, perché Springsteen non fa rivivere nessuno dei fantasmi di cui sopra o, meglio, li fa rivivere tutti in una forma alquanto sbiadita. Li si può intravedere in qualche fugace apparizione, ma si fatica a riconoscerli e soprattutto se ne rimane poco impressionati.
Mi rendo conto che Springsteen è ormai un’icona dell’America e del rock’n’roll e che quanto sto per scrivere risulterà alquanto impopolare e ingrato, in primis alla mia coscienza di fan. Però “Devils & dust” è un disco che risica la sufficienza.
Da più parti sono stati tirati in ballo Hank Williams, Woody Guthrie e Johnny Cash, eppure “Devils & dust” stenta a continuare la tradizione del folk più aspro e vero: Springsteen infatti convince più delle sue stesse canzoni, quando, ripreso nel dvd allegato all’album in un ambiente dimesso con tanto di abiti sgualciti, si impegna a presentare alcuni pezzi e spiegare la genesi del lavoro.
Nonostante il folksinger canti “di uomini e donne in lotta con i propri demoni”, “Devils and dust” suona come un lavoro stantio: la title-track è poco più che un esercizio, un tipo di canzone che Springsteen va ripetendo da tempo, “All the way home” e “Long time comin’” sembrano pallide outtakes di “Lucky town”, mentre più d’un brano potrebbe essere uno scarto di “Tom Joad”. Andando a spulciare nella storia di Springsteen, si scopre poi che davvero alcuni brani sono stati recuperati dal passato, quasi a ricostruire e colmare qualche mancanza.
Springsteen risulta più scrittore che cantautore, si produce nella stesura di versi e di storie più che in quella di canzoni. A non convincere e a nuocere di nuovo è anche la produzione di Brendan O’ Brien che continua nel suo lavoro di stratificazione, ovviamente in modo più minimale rispetto a “The rising”.
In verità Bruce tenta di smuovere l’andamento fiacco del disco con qualche tenue falsetto, con un sitar, un’armonica, una steel, un violino e una tromba piazzati qua e là e con qualche arrangiamento che, senza andare a scomodare la E-Street Band, produce un rock’n’roll cammuffatto, in bilico tra qualche rimasuglio mainstream e alt-country.
Non si capisce perché, soprattutto per un disco del genere, Springsteen non abbia optato per una scelta più drastica, sia a livello strumentale che di produzione, visti i risultati ottenuti in precedenza. E soprattutto non si capisce perché continui a farsi produrre da Brendan O’Brien, quando potrebbe benissimo fare da sé o appoggiarsi ad altri a lui più consoni (Roy Bittan per esempio è un discreto produttore, ma ve lo immaginate uno Springsteen acustico prodotto da Rick Rubin? O da Daniel Lanois?).
In questo modo forse gli si potrebbe finalmente consigliare di non ostinarsi con quel sottofondo banale di tastiere, che producono ben altro effetto se suonate come un organo (“Maria’s bed” e “Jesus was an only son”).
Springsteen sembra aver allentato la presa sulle sue canzoni e da mettere in nota rimangono solo una “Maria’s bed”, con qualche pezzo di musica in più, e una “The hitter”, in cui scrittura e interpretazione riescono ad andare pari passo. Il resto non impressiona più di tanto, proprio come l’adesivo “parental advisory” esposto in copertina.
Alla fine l’America ne esce di nuovo come una terra desolata i cui confini sono delle ferite che non si rimarginano, ma stavolta a preoccupare è il suo cantore, che appare altrettanto smarrito, come il fantasma di sé stesso.