High Hopes<small></small>
Rock Internazionale • Rock

Bruce Springsteen High Hopes

2014 - Columbia

16/01/2014 di Luca Andriolo

#Bruce Springsteen#Rock Internazionale#Rock



Dichiararsi fan di Springsteen non è mai stato facile come dirsi seguace di altri artisti benedetti dalla definizione di cantautore intellettuale. Sarà per la sua aria nazional-popolare, per il pathos ammantato di retorica da stadio, per i sintetizzatori del compianto Danny Federici, ma pochi altri hanno saputo generare al contempo tanti consensi e insieme pregiudizi. Tocca sempre specificare che il rocker sudato di Born in the U.s.a. (1985)  è anche l’autore dello splendido, lugubre Nebraska (1982), che a Human Touch (1992) è seguito un disco d’autore come The Ghost of Tom Joad (1995). Messi alla strette, si può uscirne con un motto scontato ma efficace: comunque il Boss è sempre il Boss. E anche il detrattore più accanito deve ammettere che l’uomo ha sempre accompagnato l’artista in un percorso di innegabile credibilità. E che per molto tempo è stato l’unico in grado di duettare senza sfigurare con personaggi quali Bob Dylan, Tom Waits, Jackson Browne, Neil Young, Michael Stipe, Eddie Vedder.  Il problema, al momento, è quel “sempre”.

Già, perché da almeno una decina d’anni, le cose sono cambiate. La sostituzione dello storico produttore Jon Landau con Brendan O'Brien dal discontinuo The Rising (2002) in poi ha aperto a suoni più piatti e radiofonici, l’allargamento dell’organico della E-Street Band ha enfatizzato una già presente pomposità, le scelte artistiche hanno cominciato a sembrare più orientate al pop, le pubblicazioni si sono fatte più frequenti, i recuperi dal passato ci hanno dato cofanetti di gemme perdute e ora, a quanto pare, questo disco ibrido, confezionato con una fretta quasi dubbia, nonostante le dichiarazioni altisonanti del battage pubblicitario.

Ma è inutile tentare di giudicare un’intera carriera alla luce di un album e forse a poco valgono anche i raffronti con il passato: un artista ha diritto di cambiare rotta, di cercare nuove vie, di adottare le strategie che ritiene necessarie per evitare di ripetersi, specialmente dopo quarant’anni di carriera.  Certo, non si può neanche perdonare a priori gli scivoloni stilistici che ci si aspetterebbe da un Bon Jovi, non dal notoriamente perfezionista autore di The River.

La traccia d’apertura, che ha fatto storcere il naso a più di un fan alla sua uscita come singolo, è invero un brano solido, un po’ ruffiano, dalle parti di Ain’t Got You, con fiati. Il suono è pieno, la voce è robusta.

Harry’s Place , composta nel 2001 durante le session di The Rising, è oscura, tenta la via dell’essenziale nella scrittura, ma è purtroppo leggermente guastata dalla produzione che inserisce voci effettate in modo quasi maldestro. Il sax, dello scomparso Clarence Clemons, la rende simile alla colonna sonora di un film noir. La chitarra finale aggiunge un tocco quasi noise piuttosto inedito ma coerente.

American Skin non è troppo diversa dalla versione che si conosceva. Perché riprenderla? Mancanza di brani, per un uomo che notoriamente registra cinque volte il materiale che finisce su disco, o necessità di ritoccare un brano che tra l’altro non è più attuale rispetto agli eventi narrati? Domandi senza risposte: la canzone scorre senza picchi, gli accenni di elettronica non aggiungono molto.

Just Like Fire Would è nientemeno che una cover dei Saints, qui suonata nello stile consueto dell’ultimo periodo: allegra, rumorosa, epicheggiante.

I rumori industriali e l’armonium che fanno da tappeto alle note spettrali di un banjo e a dei vocalizzi algidi promettono bene in apertura di Down in the Hole. La ricerca di novità è evidente, il brano marcia verso Raise Your Hand, corale, vagamente gospel: un riassunto del suono di tutto il dopo-The Rising.

Frankie Fell in Love è una ballata ariosa, non eccelsa; la celticheggiante This Is Your Sword snocciola metafore bibliche su un tappeto troppo ricco, così come troppo ricca è l’introduzione di archi della successiva Hunter of the Invisible Game, che ricorda certe atmosfere di Tunnel of Love nella composizione, gli ultimi lavori nel suono.

The Ghost of Tom Joad invece stupisce, purtroppo non in positivo. Se l’incipit è simile all’originale e la voce straordinariamente carica, l’incedere pesantemente rock la banalizza e il duetto con un Tom Morello ben lontano dai languori nebraskiani del suo esordio solista, One Man Revolution, (2007),  suona poco più che un divertissement, prima che quest’ultimo faccia a pezzi il brano con un assolo inutilmente veloce, sbrodolato, basato su suoni da concerto del liceo e ostentazioni di scale rapide. Per alcuni sarà un modo per riattualizzare il suono tipico e tradizionale della ballata (o addirittura della E-Street Band), per altri il segno di una certa ansia di modernità, pleonastica e stonata. Peggio di questo ci sarebbe solo l’inserimento di un rapper (cosa che comunque il Boss ha già fatto nell’album precedente).  

The Wall ritorna sul tema del Vietnam. Forse fuori tempo massimo. Ma la voce suona sincera. La struttura è quella della tipica ballad springsteeniana, la linea melodica ricorda Galveston Bay.

Dream Baby Dream, una cover dei Suicide, non è troppo diversa dalla versione del tour solista di Devils & Dust. Inizia con pump organ e voce, incalza, purtroppo si arricchisce di orpelli troppo invadenti. L’interpretazione non si può liquidare facilmente: vocalmente Springsteen si conferma in ottima forma anche senza bisogno di acuti rochi e vibrati o sfoggio di potenza.

Insomma, i segni di stanchezza saranno evidenti anche ai più affezionati, mentre le critiche distruttive di chi in fondo chiede di più a un artista in passato capace di dare grandi emozioni, saranno dettate, in fondo, dalle “high hopes” disattese. Chi aspettava con semplice curiosità potrà considerare il lavoro semplicemente trascurabile. Un ennesimo excursus nell’America amareggiata ma non doma, la cui narrazione non ha più il tono cinematografico che faceva di Springsteen un autore importante e sensibile. Tra ripescaggi, cover, autocover, pare che il disco sia un pretesto per l’ennesimo tour di concerti lunghi, sudati e trionfali, dove i brani incerti avranno forse la loro seconda occasione. Oppure, la conferma che l’ispirazione migliore sia ormai un ricordo, perché anche i rocker del New Jersey, in fondo, invecchiano.

Track List

  • High Hopes
  • Harry`s Place
  • American Skin (41 Shots)
  • Just Like Fire Would
  • Down in the Hole
  • Heaven`s Wall
  • Frankie Fell in Love
  • This is Your Sword
  • Hunter of Invisible Game
  • The Ghost of Tom Joad
  • The Wall
  • Dream Baby Dream

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