Bob Dylan The bootleg series volume 6: live 1964
2004 - COLUMBIA / LEGACY
Come ben testimoniava il precedente “Live 1975”, quello del tour con la Rolling Thunder Revue, Dylan ha sempre “giocato” a nascondere l’identità, sua e delle sue canzoni. Non con cammuffamenti frivoli, ma con sensi e musiche da collocare appena sotto la superficie della maschera, in modo da ispessirne la consistenza e da conservare un alone di mistero anche una volta mostrato il volto al pubblico.
Così è sempre stato nella sua carriera, dalla storica svolta elettrica fino al recente “Masked and anonymous”, passando per le scalette degli innumerevoli concerti e per gli arrangiamenti delle canzoni portate on the road. Così era anche quando Dylan era un giovane emergente, che si inventava un passato per costruirsi una storia carica di mito, e così era quando quello stesso ragazzo diventò il capostipite dei folksingers e della canzone di protesta.
Allora Dylan stava già indossando maschere, tanto vere quanto false, tutte necessarie a garantirgli quella libertà artistica che il progredire della sua musica esigeva.
Così nel tempio appena consacrato della Philarmonic Hall, nella notte di Halloween del 1934 (notte di maschere!), un cantautore ventitreenne metteva in scena uno spettacolo che solo apparentemente era una celebrazione, una consacrazione delle sue canzoni.
Non ci si dovrebbe stupire di un Dylan sorridente, che parlava e scherzava: era la reazione di chi gioca, di chi si diverte a travestirsi. Non senza un certo nervosismo ed un umorismo che si facevano via via ironici e taglienti, nel percepire che il pubblico coglieva solo la prima delle maschere, osannandola come una verità dogmatica. All’epoca, in verità, di maschere Dylan non ne indossava ancora molte, ma quella del 31 ottobre 1964 bastava già per creare il velo dell’arte.
Tanto che nell’introdurre “If you gotta go, go now” dichiarava: “It’s just Halloween … I have my Bob Dylan mask on: I’m masquerading!”. Tanto che sul palco Joan Baez, una troppo pura per sopportare qualunque maschera, faceva la figura di una verginella impacciata (“Mama, you been on my mind”).
Con un’armonica e una chitarra acustica, Dylan suonava scarno e elementare, carico di una tensione che mescolava, anzi mascherava, il personale col politico, la poesia con la visione, il folk col r&r. Presentava “Gates of Eden” come una “sacrilegious lullaby in D minor”, fingeva di dimenticarsi le parole dell’osannata “I don´t believe you” e finiva per rivendicare la propria libertà di fronte alle attese della folla che lo sommergeva di richieste (“Mary had a little lamb” compresa).
Col senno del poi e con i limiti sonori dell’epoca, questo concerto riesce a rivelare il fascino di una delle poche maschere ancora degne di essere indossate.