Bob Dylan Live 1975: the rolling thunder revue
2002 - COLUMBIA
Avendo avuto sentore della tournèe di Bob Dylan del 1975, la Rolling Thunder Revue, solo attraverso bootleg e riviste specializzate, si dovrebbe supporre che sia l’interesse storico a spingere verso questo quinto volume della serie “Bootleg series” che segue l’altrettanto memorabile “Live 1966” alla Royal Albert Hall.
Invece, nonostante il lasso di tempo intercorso suggerisca di adottare tempi al passato e considerazioni di carattere documentaristico, questo doppio live ha il pregio di andare oltre il proprio valore storico e di reggersi autorevolmente sui propri contenuti squisitamente musicali, cosa che non molti album dal vivo oggi riescono a meritarsi. Nonostante le singole tracce presentino una qualità che rende futile qualunque disquisizione, tra qualche riga non rinunceremo a puntualizzare su alcune di esse, ma per ora rimane primaria la necessità di descrivere il contesto e l’effetto che questi due dischi riescono a creare, anche a più di due decadi di distanza.
Innanzitutto la capacità di Dylan e della sua band di stravolgere la tradizione, di reinterpretarla con freschezza, di contaminare (eh, sì!) generi e sottogeneri in assoluta libertà riuscendo a soprendere per arrangiamenti ed interpretazioni. Capacità questa che deriva a Dylan da una creatività artistica e poetica al suo apice, stimolata dalla fertile instabilità dei musicisti che lo accompagnavano a turno sul palco (Joan Baez, T-Bone Burnett, Joni Mitchell, Roger McGuinn, Ramblin’ Jack Elliott ecc.).
Da una tale miscela scaturiscono una forza prima ironica e poi drammatica, grazie a cui Dylan si offre al pubblico in tutto il suo essere artista, non ultimo la significativa maschera di trucco con cui si presentava sul palco.
L’iniziale inchino di “Tonight I’ll be staying here with you” si tramuta ben presto nelle versioni taglienti, necessariamente diverse di “It ain’t me babe” e “A hard rain”. Mai più avremmo goduto di un Dylan così struggente come nella versione di “Isis” o di “Sara” e mai lo avremmo avuto se questo album non fosse stato pubblicato. Sembra di vedere il suo ghigno, a metà tra il sorriso e una smorfia di dolore, mentre canta “The lonesome death of Hattie Carroll” e sembra di vederlo tirare tutta la passionalità avventurosa dell’ispanica “Romance in Durango”.
Il country più aspro che si mescola con un blues rurale, il tex mex che arriva ad essere uno sfogo necessario quanto l’honky tonk, la ballata acustica che raggiunge il massimo della sua espressività solitaria, l’old time più tradizionale (“The water is wide”) che prende posizione come i pezzi più politici (“Hurricane”): si può discutere all’infinito sull’eterogeneità di una scaletta che raccoglie varie serate ed esclude pezzi che avrebbero meritato maggior gloria, ma queste sono davvero sottigliezze quando ci si trova di fronte una “One more cup of coffee” epica, come neanche Morricone è riuscito a fare nei suoi migliori western. Dylan ha fatto e sta ancora facendo storia, ma ai tempi della Rolling Thunder Revue la sua arte era tanto sublime da rimanere eterna, da conservarsi in tutta la sua vitalità fino ad oggi, nei secoli dei secoli.