Bob Dylan Modern times
2006 - Columbia
Con la musica di Dylan è sempre stato così, sin dagli anni ’60, e lui stesso non ci fa più caso, anzi proprio il discusso rimando ad Alicia Keys pare una parodia dei nostri tempi, tutti presi ad inseguire futili illusioni.
Invecchiato e claudicante, Dylan si mantiene sempre a distanza dal mondo, anche quando lo scruta impietoso ed esplicito: diversamente da Chaplin, il suo sguardo rimane superiore, deludendo chi da lui si aspetta ancora idee in grado di portare cambiamenti.
Più di una traccia in questo “Modern times” ammette chiaramente la posizione di un’artista che non cerca novità (“I keep recycling the same old thoughts”), non vuole stare al passo coi tempi, ma, anzi, preferisce guardare indietro per scovare nel passato un vigore e un’anima perduti.
Dylan è testimone di una musica da passare ai posteri e per questo basa sempre più le sue canzoni sul blues: il risultato è un disco old-time, ancora più di quanto lo fosse “Love & theft”. Canzoni lunghe e arrangiamenti che ritornano su trame appunto blues, swing, r&r con un canto spesso da crooner consumato.
Suonato da una cowboy band che di volta in volta vede l’entrata di qualche nuovo nome ma mantiene inalterata la sua sostanza sonora, “Modern times” è un lavoro omogeneo, da masticare fino a che il suo gusto antico non rimane in bocca. Tra qualche carrellata di versi rock’n’roll e ballate dall’agro sapore romantico, le prime a rimanere attaccate sotto al palato sono il tiro di “Rollin’ and tumblin’”, la cadenza essenziale di “Nettie Moore” e le pieghe soffuse di “Ain’t talkin’”: poco alla volta poi si scopre un lavoro di lima compiuto con chitarre, pianoforte, violino, armonica, contrabbasso, spazzole e piatti.
Il disco si rivela in modo organico, giocando su sfumature e ripetizioni svolte con gran mestiere come in “The levee’s gonna break”, in cui la rottura degli argini è metafora di quanto accaduto a New Orleans e continua ad accadere nel mondo.
Anche quando canta d’amore, Dylan esprime insoddisfazione verso una realtà ben più estesa spesso descritta con stilemi ricavati dal blues.
Verrebbe da dire che è un Dylan d’annata, perché più passa il tempo, più i suoi dischi suonano stagionati, invecchiati come un buon vino rosso. Più di così, credo, non gli si possa chiedere, per cui tanto vale gustarselo per quello che è, finchè continua a produrre senza mancare di qualità.