Bob Dylan Rough and Rowdy Ways
2020 - Columbia 2020
Rough and Rowdy Ways è un disco forse senile, ma vitale, che conferma lo stile di Tempest (2012), il precedente disco di inediti, presentando piccole novità non evidenti. Infatti il crooning dei successivi Shadows In The Night (2015), Fallen Angels (2016) e Triplicate (2016), costituiti da omaggi agli standard della popular music americana, risalenti alla Tin Pan Alley e radicati in Frank Sinatra, non è del tutto abbandonato e si ripresenta in qualche falsettone inaspettato e in un’agilità melodica che anche i detrattori della sua voce – che David Bowie definì “di sabbia e colla”, ma che ora è ancora più tagliente e ruvida, come un rasoio arrugginito alla luce della luna – non potranno ignorare.
Tuttavia, l’aspetto più evidente, almeno ai primi ascolti, è quello letterario. Il disco parrà ad alcuni più poetico che musicale: arrangiamenti e strumentazione fanno da supporto a un flusso di parole quasi ininterrotto, la struttura dei brani è serrata, con pochi ritornelli, nessun bridge, quasi nessun assolo – e quando l’assolo c’è, nel missaggio è tenuto basso, sullo sfondo, senza raggiungere il volume della voce. Siamo lontani dalla produzione di Lanois e dalle parti dei lunghi monologhi concitati su pochi accordi volutamente classici, senza eccessivi slanci melodici. Eppure, è proprio dalla parola e dalla voce che arriva il massimo della musicalità, persino nelle parti più scandite e meno cantate; non è da escludere una considerazione sul rap, che in fondo è la nuova musica nera, erede del blues, da cui Dylan a tratti pare mutuare alcune formule, come la giustapposizione di riferimenti culturali (“Up in the red light district, they've got cop on the beat / living in a nightmare on Elm Street” canta in Murder Most Foul) e dell’avverbio like che punteggia le similitudini. C’è la Terra Promessa di Key West, c’è l’omicidio di Kennedy che diventa il pretesto per un funerale di ricordi e ideali dedicato alla cultura americana. Ci sono nomi, tanti nomi, da Kerouac, Corso e Ginsberg a Jimmy Reed, Edgar Alan Poe, Anna Frank (e Indiana Jones, nello stesso verso!), William Blake, e ancora una disinvoltura di natura forse postmodernista che fa confluire alto e basso, personale e collettivo, aulico e colloquiale, con un’intera geografia dell’immaginario, di cui Dylan stesso è parte, e la consueta serie di riferimenti biblici e mitologici mutuati dalla retorica del folk blues più atavico. E non manca l’usuale ironia: se Einstein suonava il violino in Desolation Row, Freud e Marx si trovano all’inferno per aver tentato di interpretare il mondo (il secondo, impugnando un’accetta).
Dopo la aggraziata traccia iniziale, si presenta subito il blues elettrico tipico dell’ultimo Dylan e False Prophet promette uno sviluppo live (qualcuno ricorda la versione quasi waistiana di Cold Irons Bound?). Purtroppo (?) non si può ignorare che la musica e gran parte dell’arrangiamento siano mutuati da If Lovin’ Is Believing di Billy “The Kid” Emerson, ben oltre il plagio! Love & Theft, come suggeriva il titolo del disco del 2001? Le chitarre contornano una voce singhiozzata e pietrosa su una pentatonica irrinunciabile. Sempre facendo I conti col proprio mito, il cantautore dichiara: “I'm the enemy of the unlived meaningless life / I ain't no false prophet / I just know what I know / I go where only the lonely can go / I'm first among equals / Second to none / The last of the best / You can bury the rest”, per finire con “Can't remember when I was born / And I forgot when I died”.
Ecco, come in un’ipotetica nuova Antologia di Spoon River, tutti i personaggi di Dylan sono oltre, che si tratti del Giordano o del Rubicone, sono sopravvissuti e morti, sono reduci, peccatori da vecchio West e profeti di una Bibbia profana. Il senso generale è di spaesamento storico ed esistenziale: non c’è alcuna Buona Novella, ma strategie di resistenza e disincanto.
Anche My Own Version Of You è un blues canonico e un po’ sinistro: “All through the summers, into January / I've been visiting mosques and monasteries / Looking for the necessary body parts / Limbs and livers and brains and hearts” Il protagonista è un novello dottor Frankestein (e che cos’è l’artista, in fondo?), la voce è roca e cavernosa, le chitarre proseguono cadenzate come un passo inquieto.
I’ve Made Up Mind to Give Yourself to You ha un coro d’altri tempi che propone un tema che può ricordare Hotel Supramonte di De André/Bubola o, con un po’ di fantasia, la Barcarole di Jacques Offenbach.
La coheniana Black Rider ha il testo di un’invettiva, sparute note flamenco e una voce carezzevole ed estenuata. Non è chiaro chi sia la nemesi: il testo è allusivo e quasi kafkiano.
Mother Of Muses è dolcissima e può essere una nuova Everey Grain Of Sand: un’invocazione all’arte e alla musica, dal punto di vista di un umano che ha bisogno dei miti, siano essi quelli della classicità greca o Elvis e Martin Luther King.
In Crossing The Rubicon, forse l’episodio musicalmente più trascurabile, torna Giulio Cesare e i passaggi da cui non c’è ritorno. Ma tutto l’album, in fondo, non può che essere letto nella prospettiva dell’età che avanza, del governo Trump (sarà lui il bullo del titolo?) e di una pandemia che ha portato il mondo intero a confrontarsi con le proprie fragilità e contraddizioni… eppure sono tematiche consuete, intime e universali, che riguardano la vita e la morte e lasciano da parte la morale. Key West è un sogno di salvezza sulle note di una fisarmonica. La città della Florida, in spagnolo si chiama Cayo Hueso, cioè “città delle ossa.” Una radio pirata guida il viaggio.
Per finire, la torrenziale Murder Most Foul ci restituisce il Dylan che di rima e immagini ha fatto uno stile inconfondibile, su poche note di piano.
Molti troveranno questa ultima fatica trascurabile rispetto ai capolavori del passato, tranne chi vorrà addentrarsi in un’opera completa e complessa, che può essere considerata tra le migliori produzioni di Bob Dylan fino ad oggi, almeno considerando la seconda parte della sua carriera.