Bob Dylan No direction home (dvd)
2005 - Paramount
Finita infatti la prima e la seconda visione del film, diventa indispensabile, per chi ancora non l’ha fatto, leggere “Chronicles Vol. 1”, rivedere “Don’t Look Back”, esemplare documentario di Pennebaker sul tour inglese di Dylan del 1965, riascoltare la colonna sonora del film, nonché settimo volume della serie Bootleg, e magari procurarsi anche il feticcio “The Dylan Scrapbook”, che a suo modo documenta proprio il tanto romanzato decennio 1956-66. E se ancora aveta una pedina da giocare, procuratevi anche “Like A Rolling Stone”, nuovo saggio di Greil Marcus sulla canzone che cambiò tutto.
Tra i tanti pregi di questo appassionato lavoro di Scorsese c’è proprio la capacità di immergere lo spettatore nel mondo di Dylan che, per quanto già abbondantemente narrato, non smette mai di stupire, di rivelare qualcosa di nuovo. C’è la storia di un giovanissimo Bob Dylan che inseguiva Woody Guthrie, del grande John Hammond, produttore della Columbia irriso perché credeva che quel ragazzino magro che si esibiva nei locali del Village a New York sarebbe diventato qualcuno, anche dopo le sole 1500 copie allora vendute dell’omonimo debutto discografico.
C’è tutta la delusione e l’amarezza di Joan Baez quando capisce che Dylan vuol percorrere la sua strada senza dover rendere conto a nessuno. E la chiave del film risiede per buona parte in questo concetto. Dylan ha paura di essere imprigionato in un sistema che pretende in vari modi qualcosa da lui. Non vuole essere un cantante di protesta, non vuole essere solo un cantante folk. I giornalisti, che mai amerà, hanno i loro problemi tanto che i più impreparati vengono spesso lasciati senza parole, nell’imbarazzo generale. Gli chiedono se parteciperà ad uno dei tanti sit-in per la pace e lui risponde con un sorriso beffardo che ha altro da fare. Iniziano a fischiarlo perché è passato alla chitarra elettrica e lui urla al pubblico che è bugiardo e incita la band a suonare più forte.
Poi, però, rimane davvero male, quando gli dicono che Pete Seeger (su questo fatto ci sono versioni diverse) voleva tagliare i cavi per farlo smettere di suonare. Si sente tradito, non capisce perché uno dei suoi idoli possa aver pensato ad un gesto così eclatante. Ma niente e nessuno lo fermerà, Dylan ha preso la sua strada, un percorso che ha ben chiaro in testa e che lo porterà a diventare in pochissimo tempo l’artista più influente della musica americana del secolo scorso.
Anche i suoi musicisti che già allora impazzivano ad inseguirlo, a cercare con gli occhi le sue dita sulle corde della chitarra, per capire quale maledetta tonalità stesse usando, ne parlano con devozione, a iniziare da Al Kooper per finire con quei signori che poi diventarono The Band.
Anche i fan impazzivano, non solo quelli che lo consideravano un traditore del folk, ma anche coloro che pretendevano un semplice autografo. Niente da fare la sua risposta, mentre subiva pesanti insulti, era di questo tipo: “Ehi ragazzo perché vuoi un autografo da me? Perché? Che te ne fai? Se ti servisse te lo farei, ma non ti serve”. Anche questo era il giovane Dylan. E se oggi Dave Van Ronk sorride, allora, quando seppe che Dylan, pivello newyorkese, gli soffiò la sua cover di “House Of The Risin’ Sun” si arrabbiò così tanto che gli tolse il saluto per molto tempo.
Emanava però tanto di quel carisma che tutti alle fine avevano un sincero rispetto per lui. E come azzarda simpaticamente qualcuno nel documentario, Dylan non è stato baciato da Dio, ma dallo stesso preso a calci in culo, ed è per questo che ha un brutto carattere. Se mai c’è stata, quella spinta al posteriore, Dylan la trasforma in una sorta di slancio per la sua missione. Lui non era però il profeta di nessuno, guai a dirglielo. Dylan era ed è, prima di tutto, un uomo libero, con i suoi difetti e, soprattutto, il suo immenso genio che ancora non ha eguali. Quel periodo si chiuse con un disco epocale “Blonde on Blonde”, il primo album doppio della storia del rock, e con il fatidico incidente in moto che tenne Dylan lontano dalle scene per un po’ di tempo. E chissà se anche in questo episodio non ci fu lo zampino di Dio. Il Dylan che venne dopo fu molto diverso.
Se mai Scorsese decidesse di filmare il periodo 1966-76, quello che arriva alle meraviglie della “Rolling Thunder Revue” e a “Desire”, anno in cui il sottoscritto fu iniziato a Dylan, quante meraviglie ancora potremmo scoprire?