Bob Dylan

live report

Bob Dylan Roma / Parco della Musica

04/04/2018 di Giovanni Sottosanti

Concerto del 04/04/2018

#Bob Dylan#Americana#Songwriting

"La voce di Mr. Dylan è qualunque cosa tranne che bella, sta consapevolmente cercando di catturare la rude bellezza di un bracciante del sud che riflette in musica sulla sua veranda. Le sue note sono tutte tosse e abbaio e una bruciante intensità pervade le sue canzoni" Queste parole furono scritte da Robert Shelton, critico musicale del New York Times, il 29 settembre del 1961, dopo aver assistito all'esibizione che il ragazzo di Duluth tenne al Gerde's Folk City, West Village, New York City. Dal 1961 ad oggi sono passati ettolitri ed ettolitri di acqua sotto i ponti, cinquantasette anni, guerre, paci, rivoluzioni, muri e torri crollate, ideologie, sogni e utopie, progresso, tecnologia, l'uomo sulla luna, cattiveria, miseria, povertà, pace e amore.

Sono passate generazioni e generazioni ma lui è ancora lì, su quel palco, e noi siamo ancora qui, sotto quel palco, a volte in piedi, a volte seduti, sempre e comunque irrimediabilmente ed emozionalmente travolti da quella voce. Perché quella voce ti ha rapito il cuore e l'anima, senza mai restituirteli, in una lontana mattina di Pasqua dei tuoi dodici anni, quando quella raccolta della CBS, intitolata semplicemente "Il meglio di Bob Dylan" con copertina azzurro cielo, girò per la prima volta nel Philips di Papà. Da allora è stato molto, non tutto, ma tanto di quello che ha girato nella tua vita musicale è partito da lì, per poi tornarvi, come in un ciclo fisiologico. Perché Dylan è un qualcosa che trascende il contingente, è un sentimento, uno stato d'animo che abbraccia tutta le vita nella sua interezza, e' memoria, e' passato, presente e futuro. Ti scava dentro e trova sempre territorio fertile in cui attecchire. Stasera non è stata sicuramente la sua serata migliore, il suo concerto perfetto, quello non esiste, non ci sarà mai.

È una serata in cui il folletto ti prende per mano e, saltellando sbilenco dalla tastiera al microfono brandito come una sciabola, ti porta a spasso nel suo mondo fantastico, sospeso tra blues taglienti e rabbiosi, sferzate rock, incursioni jazz e ricami swing, sussulti rockabilly e notturne discese in ballads nere come la pece. A supportarlo c'è ormai da anni una band stellare, in cui spiccano Charlie Sexton alla chitarra solista e Tony Garnier al basso, ma anche Stu Kimball alla seconda chitarra, Donnie Herron alla steel, mandolino e banjo e George Receli alla batteria non sono affatto da meno. Dopo Things Have Changed, la prima perla che illumina la piovosa serata romana è una Don't Think Twice, It's All Right sinuosa e avvolgente, seguita poi da un'arrembante Highway 61.

Torna la magia, perché se mi fai Simple Twist Of Fate che devo dire? Si prosegue con frequenti incursioni in Tempest, da cui vengono tratte Duquesne Whistle, Pay In Blood, Early Roman Kings, Soon After Midnight e Long And Wasted Years, che chiude il set prima dei bis. Nel mezzo momenti in cui veste con piacere e un pizzico di gigioneria i panni da vero crooner per eseguire Melancholy Mood di Sinatra, Once Upon A Time di Tony Bennett e Autumn Leaves di Yves Montand. C'è spazio per Honest With Me e Tryin' To Get To Heaven dai capolavori Love And Theft e Time Out Of Mind prima che si appalesi una Tangled Up In Blue travestita di un blues assai poco riconoscibile ma tremendamente ammaliante.

A latere di tutto ciò va sottolineato l'atteggiamento assolutamente fastidioso ed esageratamente puntiglioso della security, probabilmente su precise disposizioni dell'entourage dell'artista. Quasi maniacale, ossessivo e da regime dittatoriale il divieto nei confronti dell'uso di cellulari e macchine fotografiche. Che nell'utilizzo di tali apparecchi ai concerti si sia arrivati ad eccessi opposti siamo d'accordo, ormai se non si fanno i selfie o i video i concerti non sono validi, ma per tutto c'è un modo e una misura, soprattutto se il biglietto che pago non è propriamente economico. Nel frattempo Con Thunder On The Mountain ci si avvia verso il finale, la gente si alza dalle comode poltrone e conquista il bordo palco, con nuovo fastidio della security che vorrebbe tutti regimentati in fila per tre.

Anche Dylan appare visibilmente infastidito quando torna per i bis, attacca Blowin' In The Wind, poi si ferma, dice qualcosa verso la band e riparte per una versione distorta, ribaltata, barcollante e stralunata dell'inno generazionale per eccellenza. Missione compiuta, anche stasera Bob ha ucciso Dylan. Ballad Of A Thin Man la riconosci per forza, perche' l'intro l'hai sentito milioni di volte e "You walk into the room with your pencil in your hand" ruggisce rabbiosa anche se la voce e' un latrato arruginito. Poi via, zero saluti, la band non viene presentata. Giù il sipario, su le luci. L'irrisolto e perenne controsenso di un uomo che vive da decenni perennemente o quasi in tour per poi rifuggire tutto quello che e' show business, pubblico e addetti ai lavori in primis. Così è se vi pare. Prendere o lasciare. Robert Allen Zimmerman, per gli amici Bob Dylan.

Foto di Antonio Ruotolo