Bob Dylan Tempest
2012 - Columbia
Croce e delizia di chiunque si ponga di fronte alle nuove canzoni, la storia di Dylan è un tutt’uno con i brani stessi, che però non ammiccano a periodi e suoni passati, presentandosi già come classici, cioè figli legittimi di un celebrato Autore di Classici.
Le dieci canzoni di Tempest non fanno eccezione: siamo di fronte ad un uomo che si nutre del proprio mito senza timore di cambiare continuamente e che sa scrivere, cantare e arrangiare secondo un personalissimo gusto, sempre al confine con la più esibita autoreferenzialità.
Ci va un caparbio coraggio, infatti, e le composizioni hanno, per così dire, il coraggio della monotonia. Niente assoli, tranne qualche inciso nella swingata Soon After Midnight, pochi bridge, nessun ritornello, solo un susseguirsi ostinato di strofe, una durata quasi sempre spropositata rispetto alla struttura del brano, come nel caso della torrenziale Tempest, che narra la tragedia del Titanic in 14 minuti di rima alternata, con la voce da vecchio zio che cavalca una maestosa melodia di derivazione irlandese in un ideale ibrido tra Black Diamond Bay e Red River Shore che non sfigurerebbe nel repertorio di Mark Knopfler, vecchio amico e compagno di un recente tour. Forse la statura dell’interprete, che alcuni considerano limitato, sgraziato, compiaciuto, sopravanza le doti del compositore, ma chi può realmente scindere le due figure? Un fan di Dylan – avvezzo a riconoscere le sfumature non già di interpretazione ma addirittura di pronuncia – sa che si tratta delle ineguagliabili doti dell’ultimo vero menestrello, del sempre più numinoso aedo di Duluth. Un uomo distaccato da tutto, sempre dalla parte della tragedia, del naufragio, del blues, dello spirito aspro ed epicheggiante del folk, una voce che è tutt’uno con l’America e la sua Storia non solo musicale, che canta di chi sogna del Titanic che affonda e “prova a dirlo a qualcuno” (e diciamolo, se non fosse per la sua voce roca e “astratta”, la canzone sarebbe forse noiosa).
Scarlet Town è molto vicina a Forgetful Heart, una delle punte dell’ottimo Together Through Life, così come il blues con la fisarmonica di David Hidalgo intitolato Early Roman Kings.
Rolling On John pare uscita dalle sessions di Oh Mercy (1989), ovvero dal Dylan più introverso e per certi versi raffinato: il tono singhiozzato e singhiozzante suona più necessario che mai, con la trattenuta dolcezza dell’omaggio aldilà di ogni piagnisteo, soprattutto quando, fedele al suo stesso motto “love and theft”, il signor Zimmermann incorpora frasi classiche e giustapposte con un gusto che è tipico tanto del folk che del postmodernismo… Così lo si sente cantare: “Tiger, tiger, burning britght!”, da William Blake, seguito da “I pray the Lord my soul to keep”, dalla più comune ninnananna, ed è l’ennesima dimostrazione che lo stile è quasi tutto.
Col tempo, poi, qualche melodia emergerà anche da questo disco senza ballate strazianti o blues abrasivi, che però rinuncia ad una più prevedibile leggerezza per farsi piccola, ennesima pietra di una strada di campagna che porta a casa.