Qualcosa di sinistro c’è sempre stato nella musica dei Verdena ed è chiaro anche dai loro titoli che la band bergamasca ha imboccato una strada che ha sancito un progressivo allontanamento dal sistema musicale.
A costo di mettere a rischio una carriera lanciata dal successo di “Valvonauta”, da tempo i tre hanno ostinatamente scelto di autoprodursi, alla faccia della Universal, e di suonare in piena libertà, fregandosene di tutto quanto attorno.
La scelta è stata quella giusta ed ha permesso di portare in studio quelle dosi di rock massiccio prodotte spesso dal vivo: ad un disco granitico come “Il suicidio dei Samurai” segue così un altro colpo dal forte peso ossessivo.
I fratelli Ferrari, nuovamente compattati con Roberta Samarelli al basso, dimostrano di essere cresciuti sia in termini di scrittura che di arrangiamento: grazie anche alla presenza di Mauro Pagani che suona in un paio di pezzi, le canzoni hanno guadagnato una forma a loro modo autorale coagulata attorno a rivoli di testi più compiuti.
“Requiem” è il disco più rappresentativo e più vario dei Verdena. Oltre ad una manciata di ballate dalle sfumature acustiche alterate, sono presenti un paio di brani dilatatati oltre i dieci minuti e alcuni intermezzi che aumentano i già tetri giochi d’ombre.
Parlare di rock italiano è fuorviante perché i Verdena suonano con una forza tellurica che non appartiene certo al nostro paese (né tantomeno alla sua “scena” indie-rock): il grunge è ormai un fantasma spaurito e in più di un pezzo le convulsioni del trio ricordano piuttosto i Queens of The Stone Age. Chitarre, basso e batteria hanno un suono loro, spesso sordido, pronto ad arroccarsi ma anche a perdersi in parti acide (occhio ai rimandi psichedelici).
Tra le scariche di “Don Calisto” e “Non Prendere l’Acme, Eugenio” si celano bridge deviati che ricompaiono sviluppati sotto forma di mellotron e piano in “Angie”. “Canos” è forse il pezzo migliore dell’album, tesa attorno ad una forza oscura, quasi profetica nel suo cantare una realtà senza via d’uscita.
Tutto il disco insiste su interiorità soffocate, su un mondo destinato a perire (“Trovami un modo semplice per uscirne”), lasciando con immagini morenti e suoni duri che fanno male come in incubo (“Il caos strisciante”). Ad hoc la conclusione con i dodici minuti abbondanti di “Sotto prescrizione del Dott. Huxley” che terminano tra le voci salmodianti di un coro che sembra provenire da qualche lontana via crucis.
“Requiem” è un disco che ipnotizza e possiede l’ascoltatore come un incantesimo malefico.