Pearl Jam Pearl jam
2006 - Sony Bmg
Ovviamente nel primo gruppo rientrano anche i Pearl Jam, per i quali non si può certo parlare di un ritorno al rock duro e puro: è almeno dai tempi di “Binaural” (2000), se non da sempre, che Vedder e compagni sono alla ricerca di un suono più compatto, più saldo attorno a quelli che sono toni anche classici.
Fa però comodo alla stampa generalizzare e presentare ogni uscita riducendola in eventuali tendenze o categorie, per cui se “Riot act” era un disco politico, questo è un disco duro. In realtà entrambi questi dischi sono politici e duri, caratteristiche che appartengono quasi per natura al rock dei Pearl Jam. Non ci si deve quindi attendere novità o colpi a sensazione da questo album: è un disco dei Pearl Jam in tutto e per tutto, lo dice per primo il titolo.
Se si è alla ricerca di brani epocali da mandare a memoria, c’è da restare delusi perché si rischia di rimanere in attesa di pezzi da novanta che non ci sono. I Pearl Jam infatti sono sempre più alla ricerca di un approccio organico e lavorano come una band rodata in ogni ingranaggio: ne è prova la composizione dei brani accreditata in parti ormai quasi uguali a Vedder, Gossard, McCready e Ament.
“I Pearl Jam sono una vecchia auto, ma abbiamo appena rifatto il motore”, hanno dichiarato a ragione, perché, se non hanno più lo spunto scattante di un tempo, sulla distanza tengono come pochi. Le nuove canzoni avanzano con un impatto che produce i suoi effetti dopo aver carburato a dovere: i primi cinque pezzi sono assestati con un tiro e un peso notevole. Tra le frustate di “Life Wasted” e gli scossoni di “World Wide Suicide” si inseriscono anche parti meno dure, come il bridge di “Severed Hand”, con le chitarre che fischiano come sirene, e il ritornello cantabile di “Marker In The Sand”: è un rock d’autore dalla scorza dura governato dalla voce di Vedder che passa dalla rabbia a slanci melodici fino al mezzo falsetto di “Parachutes”.
Da notare ancora una volta il chitarrissmo di un Mike McCready, che sarebbe ora di smettere di considerare hendrixiano, e il lavoro di coesione delle tastiere, mentre i testi mettono con le spalle al muro un’umanità bellicosa che ha svenduto qualunque ideale.
La seconda parte del disco non ha picchi e si poggia una reprise di “Life wasted”, che con l’organo a pompa sa tanto di Neil Young, e su un paio di ballate robuste modello “Yellow Ledbetter”.
Non è uno dei picchi della loro discografia, ma il nuovo album dei Pearl Jam non delude e suona ancora rock, più di tanti gruppi del momento.