Pearl Jam Gigaton
2020 - Monkeywrench Records/ Republic Records
(Benjamin Disraeli)
Dopo anni di snervante attesa, anticipazioni disattese e critiche preventive tornano i Pearl Jam, la band di Seattle portabandiera e testimonial di un periodo, di una scena ormai consegnata alla storia come l'ultima prolifica, autentica rivoluzione del Rock. Il Grunge, inteso come moda, come contenitore nel quale per anni sono confluite band, artisti molto differenti tra loro ma accomunate dalla stessa urgenza, la comune provenienza, quella città del Nord Ovest americano, Emerald City, un tempo famosa esclusivamente come città di frontiera, boscaioli e della pioggia divenuta negli anni novanta capitale della new economy e in contemporanea della musica grazie alla ribalta conquistata dal Punk-Rock di Nirvana, Mudhoney tra gli altri e nei numeri soprattutto dei Pearl Jam appunto.
Ten, VS, Vitalogy, No Code, Yield, Binaural, Riot Act, Pearl Jam (Avocado), Backspacer, Lightning Bolt e in fine Gigaton, questo il titolo dell'opera che nell'idea dei cinque rappresenta un baluardo nella battaglia personale e globale in difesa dell'ambiente e delle libertà individuali da politiche divisorie, oppressive. Il concept dell'album si può cogliere innanzitutto da titolo e artwork raffigurante lo scatto di Paul Nicklen, fotografo, regista e biologo marino canadese che immortala un ghiacciaio e il suo innaturale disgelo. La nuova uscita di un gruppo estremamente popolare come i Pearl Jam di oggi, forti del bagaglio professionale e umano acquisito attraverso successi, momenti bui, battaglie etiche, pubblicazioni iconiche e comprensibili battute d'arresto distribuite lungo una carriera trentennale impone delle riflessioni sulle reali possibilità che questo album possa deludere puristi della prima ora, innovatori legati alle tendenze del momento o spostare di contro le mirabolanti impressioni destate da sonorità inedite e più mature che si colgono ascoltando il primo singolo svelato con discreto anticipo, Dance Of The Clairvoyants.
La classica canzone spiazzante, il pezzo che non ti aspetti ma in realtà speravi a seconda della posizione di partenza e qui subentra la prima doverosa elaborazione della ricezione, nello specifico un'evoluzione artistica apprezzabile e coraggiosa, nella cultura di massa la sensazione che manchi qualcosa, una direzione ben precisa. In assoluto il brano è davvero interessante e ha il pregio di destare curiosità, impazienza per il resto della tracklist, ma andiamo con ordine. Gigaton, prodotto dalla band in collaborazione con Josh Evans, si presenta con i riff graffianti, ondeggianti di Who Ever Said e la voce in splendida forma di Eddie Vedder che riesce a dar forza alla prima canzone del lotto da lui stesso composta come nel caso della successiva Superblood Wolfmoon, brano scelto come secondo estratto apripista e sostenuto dal classico e un po' stucchevole tiro Garage-Rock molto familiare tra gli estimatori dei cinque, brano che tocca il suo apice nell'assolo di classe eseguito da Mike McCready a metà del pezzo. La partenza è in pieno stile Pearl Jam, sound secco, nervoso che viene interrotto dalla prima virata decisa verso l'episodio più sperimentale e atipico dei dodici incisi, la già citata Electro-Ballad Dance Of The Clairvoyants, composizione di squadra che rielabora il suono classico attraverso una sezione ritmica funk, synth con tanto groove, figlia del particolare scambio di ruoli all'interno della lineup, Ament alla tastiera, Gossard basso, McCready alle percussioni mentre Matt Cameron si occupa di programmare la batteria e Vedder, autore del testo è magnifico interprete delle solenni liriche con il vocale che si adatta perfettamente al ritmo regalando alcune delle strofe più evocative proposte, When the past is the present and the future’s no more. Jeff Ament prende in mano il timone disegnando le melodie dei due brani che seguono, Quick Escape, il più tosto e rumoroso, forse vera hit di Gigaton e Alright prima profonda ballad, quasi un'ode che in comune alla precedente ha il tema, tra l'altro scritto da Ament stesso, nel ricorrente desiderio di fuggire, indignandosi per la realtà socio-politica del proprio paese. Seven O'Clock è invece il cuore pulsante del disco, pezzone intenso e politicamente scorretto, tra i più forti, anticipato valendosi di un frammento social, un tramonto oceanico sognante, romantico. Dopo i primi momentanei rallentamenti il ritmo riprende quota e decibel, Never Destination e Take The Long Way riconsegnano all'ascolto i classici episodi Punk-Rock targati Pearl Jam, un concentrato di rabbia e furore con rimandi più o meno voluti al recente passato. Arriviamo alla parte più densa, stratificata emozionalmente delle quattro conclusive e contemplative tracce, Buckle Up, delicata ninnananna scritta da Stone Gossard seguita dalla traccia più rifacente a No Code del lavoro, Comes Then Goes, una vibrante chitarra acustica che accompagna la voce calda, quasi commossa di Eddie in quella che si rivela come canzone sull'amicizia spezzata, interrotta dal lutto, con molta probabilità una struggente dedica a Chris Cornell. Retrograde, altra ballad coinvolgente, appassionante dove la band torna a farci meditare riguardo tematiche ambientali odierne prima di consegnarci al gran finale affidato a River Cross, pezzo dal sapore gospel, una triste carezza accompagnata dal suono d'organo che evoca una luce in fondo al tunnel, la luminosa e speranzosa volontà di poter sopraffare un mondo falso e pieno di paure, quanto mai attuali.
Riprendendo le premesse iniziali Gigaton non si può contestualizzare in altro periodo se non questo, facendo scadere così scomodi paragoni e confronti, un lavoro con alcuni difetti che ritornano soprattutto nei passaggi Garage vecchia maniera, musicalmente superati e fuori tempo massimo, ma anche molti pregi, almeno tre, quattro canzoni di assoluto livello e una generale sensazione di rinnovamento, di voglia nel non adagiarsi beati sugli allori. Non siamo di fronte a nulla di epocale, ma accettando una più che dignitosa riproposizione del classico sound Pearl Jam si può trovare allo stesso modo lodevole e pregevole la volontà di lottare, di lanciar messaggi importanti nonostante la carriera più che affermata. Con tutto questo l'undicesima prova in studio è promossa lasciando un margine di valutazione al gusto personale; un buon disco che si lascia apprezzare ascolto dopo ascolto, ogni volta cogliendone sensazioni differenti e particolari sfumature da confrontare con le aspettative iniziali, la conferma che talvolta è inutile immaginare con largo anticipo la direzione dell'arte, il flusso che ne scaturisce, bisogna solo attendere e lasciar che questo si riveli, spesso sorprendente.