Pearl Jam Benaroya hall
2004 - TEN CLUB / BMG
Questo doppio cd è la testimonianza di un concerto in beneficenza tenuto a Seattle per la Youth Care, associazione no-profit che si prende cura dei senzatetto. L’album è distribuito dalla Bmg, ma rispetta i “soliti” canoni della band: artowk spartano, immagini dei musicisti carenti e spazio invece ai ragazzi di Youth Care simbolicamente rappresentati all’interno della confezione.
“Benaroya hall” si differenzia dalla serie dei bootleg perché è quella registrazione (quasi) totalmente acustica che ancora mancava ai Pearl Jam: qualcosa si era già sentito nel primo set del live a Mansfield dell’11/07/2003, ma qui c’è un’intensità già compiuta in sé, che non ha bisogno di prosecuzioni o di sfoghi elettrici.
I Pearl Jam suonano con raccoglimento, non si limitano a trasportare le loro canzoni in versione acustica, come fatto da molti ai tempi dell’unplugged (che i nostri hanno rifiutato di pubblicare, vale la pena ricordarlo): la forza delle chitarre e della ritmica è contenuta in un suono delicato, forte di quelle ballate d’autore, che, da “Vitalogy” in poi, sono diventate un’ulteriore carattere distintivo della band.
L’occasione poi è buona anche per alcune chicche di repertorio: “Fatal” sembra cresciuta rispetto alla versione uscita su “Lost dogs”, “Man of the hour” è tratta dalla colonna sonora di “Big fish”, “I believe in miracles”è una cover dei Ramones, “Crazy Mary” di Victoria Williams e “25 minutes to go” di Johnny Cash, a ribadire le direzioni in cui affondano le radici del gruppo. Ma soprattutto ci sono una “Immortality”, che trova la collocazione e l’interpretazione che merita, una “Nothing as it seems” resa spettrale con echi di chitarra e una “Can’t keep” in una versione spogliata, tesa del solo ukulele, dedicata al compianto Elliott Smith, cantautore suicida che ora sono in molti a rimpiangere.
La scaletta poi è densa di riferimenti ai senzatetto, problematica da sempre nel cuore delle canzoni e delle idee dei Pearl Jam: Vedder canta con una partecipazione commossa, che non si rannicchia in nostalgie acustiche, ma prende posizioni solide e precise, anche ocn veemenza, come in “Masters of war” di Dylan.
Sembra retorico dirlo, dopo tutti i live pubblicati dai Pearl Jam fino ad oggi, ma di dischi come questo c’è davvero bisogno.