Paolo Benvegnù Hermann
2011 - La Pioggia Dischi / Venus
Un “manoscritto” a capitoli, la colonna sonora di un film mai girato, un intersecarsi di scenari spazio-temporali che sovrappongono e bruciano passato, presente e futuro, mitologia e letteratura, filosofia e cronaca, poesia ed economia: questo e molto altro ancora confluisce ad arricchire quello che è il terzo album dell’ex chitarrista-fondatore degli indimenticati Scisma Paolo Benvegnù (senza contare due ep e un live), o meglio del collettivo che ormai porta il suo nome e che vede ormai collaborare alla laboriosa distillazione di gocce di liricità travolgente e bellezza anche Guglielmo Ridolfo Gagliano (chitarre, synth, pianoforte), e soprattutto Andrea Franchi (batteria, chitarre, synth, pianoforte).
Siamo davanti ad un album di incanto penetrante e travolgente, sicuramente il più maturo della carriera solista dell’artista, risultato della sua già comprovata maestria e di una sapiente alchimia che soppesa i caratteri specifici di ogni suono, per aggiungerlo o sottrarlo in quelle che appaiono poi come naturali, perfette traduzioni in musica di stati d’animo tesi, che archi sintetici di grande suggestione lirica elevano verso vette sublimi ed oniriche. Ad alimentare la grazia passionale del rock da camera di Benvegnù c’è talvolta la purezza di linee di piano di limpidità acuminata, che poi si gonfiano nel lussureggiare magnifico di linee strumentali quasi progressive: esse si fanno colori che si contrastano, mescolano, disegnano tracce sottili ed eleganti, o affrescano a pennellate corpose.
Difficile selezionare le canzoni più riuscite di un disco di cui fin dal primo ascolto si percepisce la portata “storica”: si può citare ad esempio la trama estatica ed esaltante di chitarre limpide e distorte, bassi e synths di Love is Talking, canto di disgrazie da dimenticare, nella vita che scorre a fronte delle tentazioni di speculazione (la “seduzione per i giornalisti”), tra il cibo del pianto, la necessità dell’esodo, la strumentalizzazione del divino e l’invenzione della notte, per cancellare le colpe o punire la necessità di vedere il vero. Avanzate, ascoltate è invece una sinfonia che diluisce grumi densi di passione in archi sintetici e distorsioni, mentre Io ho visto annoda stupefatta emozione e stupore stretti in gola per magnificenza struggente di suoni e parole. Ancora: il primo singolo Andromeda Maria è una tempesta lirica che stringe in un corpo solo uomo e donna, la forza del guerriero, la sua necessità di sfidare l’inafferrabile mistero sacrale del sesso e della vita e il suo bisogno di cercare riparo ed approdo dolce per le sue fragilità. Achab in New York (scritta con Gagliano) assume una misura musicale lancinante, tra chitarre acustiche struggenti, la perentorietà rotonda del suono del piano, la regalità austera dei fiati, la poesia sofferta degli archi e il ringhiare oscuro delle chitarre elettriche del crescendo, a segnare l’impeto di una rabbia disillusa, pronta ad esprimere l’appartenenza viscerale alla terra attraverso silenziosa violenza.
Ascoltando Sartre Monstre, scandita da una ritmica quasi funk-rock e synths spettrali, si assiste invece al trionfo prepotente di un grigio che immerge in un’aria vitrea e svuotata, in una nevrosi di impulsività e impotenza, tra alienazione dei/dai sogni e rassegnazione confusa all’emarginazione. Le tracce dotate di maggiore evidenza emozionale, profondità possente e lirismo elegante sono infatti probabilmente quelle firmate dal solo Benvegnù, ma le canzoni composte dagli/con gli altri sono pure soffi di freschezza che respirano tra le note: Il pianeta perfetto (composta da Gagliano) segna la caduta della differenza tra ciò che ha contato e ciò che è stato solo spreco, mentre si ci affida ad una speranza che rischia di capovolgersi in nichilismo alla ricerca di una perfezione smarrita; Goodmorning Mr. Monroe! (del solo Andrea Franchi) è una sintesi briosa di synth-pop, indie-rock e venature vivaci di college-rock americano. Molto originale anche Date fuoco (Franchi-Benvegnù), che associa sinuosità jazzate di contrabbasso alla classe dei fiati e a chitarre quasi jingle-jangle e pare descrivere l’insorgere di una meccanizzazione disumana, la manipolazione ideologica degli intellettuali, atti di ribellione o sottomissione.
Notevole il finale, in cui i rumori del traffico sono assunti a “la” per dare il via ad una coda in bilico tra noise e jam session. Si chiude rallentando il ritmo e dispensando sonorità acustiche con brani come l’indie-pop ballad Johnnie and Jane; chitarre dal suono argentino e mesto de Il mare è bellissimo trattengono nelle loro corde un disorientamento che diviene meta e sembra guidare fuori dalla vita nell’epilogo del sogno o in un esito visionario mistico. I testi una volta in più sono belli da star male: tra quelli non ancora presi in esame, sono da leggere ed ascoltare anche quello di Moses, storia di un Ulisse che non supera i propri limiti per ansia di conoscenza, ma, per scappare da se stesso e dalle proprie ansie, sfuggendo alla noia e alle responsabilità, si nasconde nell’impressione di ascesa di un viaggio infinito, mentre Io ho visto è la testimonianza di un profeta laico che attraversa con la sua voce il sogno, il male, il desiderio, la fertilità delle lacrime di gioia, il silenzio di Dio, i sacrifici sull’altare della patria o su quello della sopravvivenza, il silenzio della rassegnazione che uccide e mette così a tacere i poeti. Un autentico capolavoro (forse ostico, ma dotato di quella complessità musiva che staglia al di sopra della facilità dell´adesione a qualunque canone, compresi quelli dell´indie di moda). Da non perdere.