Da anni sognavo di recensire un disco di John Zorn. Di lui ho praticamente tutto. È perciò con un po’ di apprensione che parlo di questo IPOS primo, e sicuramente non ultimo, album di John Zorn in questo 2010.
Poliedrico, prolifico, proteiforme, ma secondo alcuni anche prolisso e palloso, Zorn da 30 anni si pone, con il suo modo di intendere la musica, ancor di più che nel suo modo di proporla, come baluardo dell’arte come ricerca e come esercizio continuo sfuggendo ai clichè del musicista/compositore che racconta di se in prima persona. Zorn racconta di scenari diversi come e quanto diversi sono i suoi progetti; esplora le possibilità della musica di farsi racconto senza voler obbligatoriamente/esclusivamente seguire una via emozionale.
IPOS è il volume 14 del ´Masada Book 2 – The Book Of Angels´ una serie di 300 brani composti nel 2004 per il Masada Project. I titoli dei dischi si dovrebbero riferire ai nomi degli ´Angeli Caduti´ secondo la tradizione ebraica (ma di questo, come di altri Angeli sembra non ci sia citazione alcuna nel Libro Degli Angeli). Questo corposo Songbook è stato pensato per esecuzione non solo sua dei suoi (infiniti?) collaboratori ´fissi´, ma anche per quella di gruppi e solisti diversi. In questo caso il gruppo è formato da abituali conoscenze del giro zorniano riunite sotto il nome di The Dreamers, dal loro primo album, lo splendido, divertente e solare album del 2008.
Non siamo di fronte ad uno dei dischi più interessanti o innovativi del corpus zorniano! Un disco che ha il suo punto di forza nella passione sanguigna di Mark Ribot - chitarrista selvaggio trascinante e intelligente come pochi al servizio tra glia altri da Waits a Capossela, da Marianne Faithful a Joe Herry - e nel vibrafono di Kenny Wollelsen sempre in bella evidenza. Il gruppo è anche formato da Jamie Saft alle tastiere, dall’ipnotico basso di Trevor Dum e dai ´soliti´ Cyro Baptista alle percussioni e Joey Baron alla batteria. Il leader si concentra questa volta esclusivamente sulla composizione, l’arrangiamento e la conduzione.
Si parla di richiami a musica Exotica, Surf, Word, Latin Jazz e Film Music e ciò è indubbiamente vero ma il tutto è naturalmente ´speziato´ con grandi e piccole dosi di scale richiamanti la musica ebraica. Tutti i brani sono ben scritti e con un’identità stilistica chiara e definita riconducibile a questo nuovo sviluppo zorniano. Quello che gira meno sono alcuni particolari. Il suono è leggermente piatto anche nei momenti di maggiore carica sonora e questa mancanza di profondità rende vani i bei temi e le dinamiche interne alle composizioni. Ma soprattutto è evidente una ´conduzione´ zorniana nettamente ´minore´ stanca e poco incisiva.
Alcuni brani sono comunque degni di nota: l’iniziale teso Chachmiel, con un grande Ribot; il cullante Hashul; l’ipnotico Hagai, con un tema di richiamo sefardita affidato a un Saft in gran forma; l’intricato e davisiano Zortek, ma soprattutto il surf scatenato che chiude il disco Kutiel con un Ribot selvaggio a rincorrere la percussività sfrenata di Baron alle prese con timpano e tom alternati a aperture micidiali sul ride. Un grandissimo finale che consola e recupera anche i momenti meno riusciti del disco.
Insomma un disco consigliato solo per conoscere uno Zorn un po’ più leggero e non al top.