Marco Parente Neve ridens (2)
2006 - Mescal
Come ci aveva preannunciato il suo autore in un’intervista, il secondo “Neve Ridens” è un’immagine rovesciata del primo: già il titolo suggerisce come i due lavori si specchino l’uno nell’altro senza riconoscersi.
Marco Parente continua a scrutare le interiorità del mondo e lo fa con uno sguardo sempre più rarefatto, quasi surreale: mentre il disco precedente era risultato di un lavoro di gruppo a tratti rock, questo nuova raccolta scaturisce da un approccio minimale, ancora più ermetico di quanto Parente ci abbia abituato.
Posti uno di fronte all’altro, i due cd risaltano in modo diverso ed evidenziano tratti che sarebbero andati scemando in un album doppio. Solo che questo “Neve Ridens” è un lavoro sin troppo astratto in cui la concettualità prevale sulla musica.
I brani sono costruiti su suoni che si muovono come in una galleria d’arte moderna con tanto di lamiere d’acciaio, batteria di custodie, gamelan preparato e effetti di computer, mentre il canto è spesso dilatato, prolunga le sillabe e non rivela la forma delle composizioni.
È come se nel processo di sdoppiamento attuato con questi due dischi Parente avesse scelto di mostrare prima l’immagine più nitida e centrata e poi quella più lontana e sfuocata, quasi un negativo esposto prima dello sviluppo.
Si comincia con “Neve” che è una “Wake up” in versione invertita, un risveglio impigrito, privo di nerbo ritmico, e si prosegue con “Michelangelo Antonioni”, un pezzo di Caetano Veloso posto ad “esempio di quello che deve, o che almeno dovrebbe produrre, il prototipo del nuovo cantautore italiano”: Parente si propone una volta di più come uno dei pochi in grado di condurre una ricerca su di sé e sulla musica (italiana) in generale, ma si spinge talmente in là da perdere di vista le canzoni.
Il disco finisce per suonare come una serie di esercizi complessi, condotti per vedere quanto voce e strumenti possano scavare sul fondo della propria consistenza: così la prima e la seconda parte della “Trilogia del sorriso animale” lasciano con immagini che volteggiano perplesse, “Amore cattivo” si snoda enigmatica fino ai suoi stacchi di chitarra e anche la title-track, cantata a tre in compagnia di Manuel Agnelli e di Marco Iacampo (Goodmorningboy), rimane un’interrogativo senza risposta. Qualche barlume di canzone compare in “Gente in costruzione”, ma anche qui il pezzo è svuotato di qualunque evidenza: “i nostri occhi devono cantare / ciò che non si vede”.
“Neve Ridens” è un disco che si ritrae, preferendo rimanere impalpabile, un paio di passi indietro rispetto al suo predecessore: “Oggi non ho il coraggio di ascoltare / la neve che cade / e tocca terra”.