Van Morrison Versatile
2017 - Caroline
Fin dai primi progetti musicali Van Morrison ha sempre dimostrato una “versatilità” e una padronanza dei generi non comune, l’interesse per la musica tutta, proprio come suo padre, un po’ come il suo eroe Lead Belly; infatti la sua dimensione artistica “maggiore” ha saputo abbracciare più generi in modo geniale: folk (celtico e non), blues, gospel e jazz sono da sempre il mix morrisoniano per eccellenza, ad impreziosire qualche spezia classica, un pizzico di energia rock e il gioco è fatto: ovvero gli ingredienti magici contenuti nell’opera immortale di Astral Weeks (il prossimo anno festeggerà 50 anni), un album che probabilmente, per la sua salvifica, misteriosa e soprannaturale bellezza, non trova pari riscontri nell’universo discografico di tutta la popular music.
L’iper prolifico percorso artistico e discografico di Van Morrison non ha sempre mantenuto gli equilibri stilistici citati, ma non sempre i risultati lo hanno penalizzato, molto è dipeso dalla sua ispirazione e dalla tipologia di disco affrontato. Saltando a piè pari vari decenni (in modo impietoso) ritroviamo Van nel 2017 con due dischi che lo hanno risollevato da ogni punto di vista dopo qualche anno di alti e bassi, due grandi dischi: il ritorno alla forma di Keep Me Singing (suo migliore del nuovo millennio) e il disco blues di Roll With The Punches, in sintesi due album per ridefinire se stesso, nel presente e nel passato, due album per riassumere l’anima di un musicista che fin dagli inizi ha saputo trasformare il blues in un qualcosa di più elevato e poetico, portandolo ai suoi massimi livelli espressivi e talvolta ad una dimensione mistica assolutamente unica.
Dopo due album di questo livello è arrivato a sorpresa, dopo soli due mesi e mezzo da RWTP, il progetto jazz di Versatile (sempre con la Caroline) che in un certo senso chiude il cerchio con i due precedenti degli anni novanta (il disco con Fame e il tributo a Mose Allison) seguendo però una via più nostalgica, la stessa del disco che lo ha preceduto, ovvero un tributo al grande songbook americano degli anni d’oro. In pratica, in poco più di dodici mesi, con tre album stilisticamente diversi, Van ha partorito quello che un qualsiasi cantante si sognerebbe di pubblicare, in modo altrettanto credibile, in un’intera carriera.
Il prestigio del vocal jazz si afferma con i grandi crooner degli anni quaranta-cinquanta, un genere che nei decenni è stato affrontato da molti ma ben fatto da pochi. Il vocal jazz che si perde nello stereotipo e nell’esecuzione accademica non ha molto da offrire, già ha una sua leggerezza di fondo, se poi lo privi di personalità e spessore artistico allora l’ascolto può diventare veramente tedioso. Ovviamente non è il caso di Van che, oltre alla sua capacità innata di musicista superiore, nella sua viscerale e spontanea vocalità ha sempre dato grande spazio all’improvvisazione, anche grazie ad un’esperienza già “vissuta” del genere (basti pensare alla sola Moondance datata 1970).
Venendo al nuovo disco, Van ha raccolto una bella sequenza di pezzi (dieci cover di classici tra cui si segnalano George Gershwin e Cole Porter, e sei pezzi suoi: tre originali, tre remake), si è affidato alla sua band abituale, senza ospiti o musicisti di rilievo (eccezion fatta per James Galway), arrangiamenti molto “live”, sound acustico, gusto come al solito impeccabile. In Versatile abbondano le calde atmosfere notturne, l’ascolto ci immerge nella stagione che stiamo vivendo, magari accanto ad un camino acceso contornato di luci natalizie; probabilmente non è un disco per tutti i momenti o per tutti gli umori ma chi apprezza il jazz avrà fin da subito l’impressione di aver trovato un piccolo tesoro. Per ovvie ragioni stilistiche bisogna dire che le qualità basilari del nostro, ovvero quella compositivo-cantautorale e quella espressiva “blues/soul”, sono qui decisamente limitate, l’atmosfera jazz prevalentemente rilassata, talvolta gioiosa e giocosa di Versatile perde un po’ il peso specifico dell’inquieta anima blues di cui Van, col suo tipico lamento e il suo intenso approccio emozionale, è supremo interprete; non a caso alcuni dei migliori brani del disco (due inediti di Van) Take It Easy Baby, la dolce, meravigliosa versione di Makin' Whoopee e l’insolita ironia della frizzante apertura di Broken Record conservano l’equilibrio tra i generi.
Siamo comunque davanti ad un disco di grande qualità, la voce di Van si aggiunge come strumento finemente prezioso e pittorico, libero e torrenziale, lo strumento più bello tra tutti gli strumenti. Inoltre con gli ascolti, come spesso capita nel jazz, emergono nuove sfumature che alimentano il piacere e la fantasia.
Se era prevedibile che il cuore dell’album si raggiungesse con la versione di Unchained Melody, l’ascolto ce lo certifica. L’unica vera ballad del disco (quasi vera la deliziosa I Left My Heart in San Francisco ) con il suo alto tasso romantico apre le porte ad uno dei suoi più grandi interpreti: in alcuni momenti la voce di Van è in trance mood, sembra quasi posseduta dalla musica stessa, più che cantare sembra cantata, l’uso misurato dei fiati e del piano viaggiano in sincronia al cospetto di una aggraziata sensibilità musicale, un vero gioiello che Van, non avevamo dubbi, fa completamente suo. Ma non è finita, a sorpresa il cuore dell’album si espande: lo stupendo terzo inedito Affirmation si immerge nel tipico misticismo morrisoniano per sei minuti prevalentemente strumentali, un mantra suggestivo per flauto (suonato dal grandissimo James Galway), sax, tromba, piano e voce, dove Van alimenta il rituale con ripetizioni sciamaniche (dig dig dig dig dig dig dig…), composizione “luminosissima” che sembra ricollegarsi vagamente a certi episodi strumentali dei primi anni ottanta (vedi Beautiful Vision o Inarticulate Speech of The Heart ).
Le sorprese continuano con un incantevole strumentale (stavolta integrale) tradizionale, Skye Boat Song ci trasporta sulle verdi colline scozzesi con semplicità e pregevole finezza swing. La briosa eleganza di A Foggy Day di Gershwin e Bye Bye Blackbird completano una selezione ideale (i tre remake morrisoniani sono buoni ma non più esaltanti della versione originale, però la nuova Start All Over Again potrebbe smentirmi).
Nonostante qualche brano di troppo nel complesso Versatile è assolutamente godibile e convincente, forse un gradino sotto gli ultimi due eccellenti album ma solo per le caratteristiche stilistiche che sembrano appartenere più al legame affettivo che all’intensità emozionale tipica di Van, infatti, come già detto, in larga parte vige il passo del nostalgico divertissement, una spensieratezza/leggerezza quasi ignota ai migliori lavori del nostro; del resto, è un disco vocal jazz, con tutte le particolarità del genere. Comunque Unchained Melody, Affirmation e Makin' Whoope valgono da sole il prezzo dell’album, tre momenti di palpitante bellezza degni del miglior Van Morrison, ma anche l’immensa classe, la musicalità, le superbe capacità orchestrali e soprattutto l’impatto vocale di Van sono aspetti di grande attrazione, capaci di regalare una piacevolezza d’ascolto unica.
Lunga vita a Van The Man che ha recentemente annunciato di avere ancora molta carne al fuoco (o meglio nei cassetti), stay tuned!
Consiglio: un volume d’ascolto sostenuto riesce a valorizzare maggiormente le sfumature vocali di Van e la raffinatezza sonora degli arrangiamenti.