Radiohead In rainbows
2007 -
No, non sono tornati indietro. Il passato è un possesso inalienabile che si accumula, ma non si perde. Tuttavia nel loro settimo studio-album, disponibile al momento solo attraverso un download ufficiale, l’elettronica, con cui il gruppo di Oxford si è cimentato nella scomposizione della struttura classica della canzone dissolvendola in tappeti di samples e rumori pronti ad assorbire il soggetto fino ad alienarlo, è ormai pienamente metabolizzata come ingrediente che non copre le altre componenti strumentali, ma le esalta. Essa si profila infatti come sfondo che valorizza l’emergere degli strumenti tradizionali, che suonano spesso piuttosto puliti e armoniosi.
Non mancano però suoni più sporchi e distorti, come in “Bodysnatchers”, che annovera ritmi spezzati e fraseggi di chitarre elettriche a dialogare come rombi contrapposti all’insegna del noise. La voce di Yorke in questo pezzo, come tra le pieghe oscure del rock chitarristico di “Jigsaw Falling Into Place”, è agile e nervosa, ma in generale si carica nel disco di una potenza e di un afflato lirico, che rammenta ancora più da vicino lo stile vocale dell’indimenticato Jeff Buckley e riecheggia fluida come un canto dispiegato in bilico tra terra e cielo, inferno e paradiso.
La melodia torna a sprigionare il suo infinito potenziale emozionale ad esempio nel crescendo di “All I Need”, ma questo non implica né momenti contemplativo-idillici di bel canto pop, né una qualche nostalgia per i tempi che furono: la ritmica dell’intro e del “primo movimento” della stessa canzone conserva il fascino algido e ambiguo dell’inferno elettronico metropolitano, fondale sonoro su cui però si eleva acuto e penetrante il binomio piano-voce.
Non manca qualche momento di lieve appannamento, ma nel complesso “In Rainbows” è un dispiegarsi continuo di pathos, talora sottile e appena inquieto, altrove drammatico e “cinematografico”, come in “Nude”, ballata dal respiro magniloquente, rarefatta e dolente come non ne sentivamo dai tempi di “No Surprises” o “Exit Music(For A Film)”, con tanto di calibrati cambi di ritmo e atmosfera nelle trame di arpeggi e violini. Questo brano è rimasto nel cassetto più o meno da quei tempi, ma riascoltando le prime versioni live del pezzo, non si può che misurare la crescita e la consapevolezza del gruppo, che ora ricostruisce da zero la forma canzone, riarricchendola in intensità ed elaborazione dopo averla spogliata di ogni prevedibile languore.
Nei testi la contingenza e la necessità soffiano sui castelli di carte, che si frantumano in schegge di disillusione amara o consapevole autocritica, che pure è resistenza alla realtà oggettiva, anziché resa.
Le atmosfere apocalittiche tipiche dell’ultimo Yorke solista riemergono soprattutto a chiudere il disco nella splendido e funereo addio di “Videotape”, in cui l’elettronica scuote violentemente riff di piano che rimbombano ossessivi. L’amore si profila come dipendenza compulsiva, eppure opaca, ambigua via salvifica. “Weird Fishes/Arpeggi” si conclude ripetendo i versi “I’ll hit the bottom/hit the bottom and escape”: forse il mondo come lo conoscevamo (e non solo quello della discografia che i Radiohead saltano a piè pari pubblicando questo lp senza etichetta) è finito da un pezzo.
E il suo canto del cigno, sublime e lancinante, è anche saluto che descrive un indefinibile, allucinato mondo postumo da cui ricominciare.