Radiohead Amnesiac
2001 - Parlophone
È così che "Amnesiac" si è presentato quasi da solo come il seguito di "Kid A", punto di svolta ormai evidente del gruppo inglese verso un suono più sperimentale e alternativo di quanto li aveva portati ad un meritato successo. Le musiche di questo album, e forse è appropriato parlare di musiche piuttosto che di canzoni, raffinano i rigurgiti della precedente creatura e recuperano anche alcuni geni paterni di "The bends" e "Ok computer" (i cori di "You and whose army" oppure l´arpeggio di "Knives out"). Ma i Radiohead hanno ormai intrapreso una ricerca sonora che di certo non intende compiacere nessuno. Dopo tante commercializzazioni subite dal pop, questi ragazzi stanno lentamente riavvicinando il genere a un concetto d´arte e ne è conferma il fatto che neanche il termine rock può contenere la loro musica. Non solo sono al passo coi tempi (a quali artisti moderni potremmo accostarli?), ma stanno definendo i tempi (quanti gruppi attingono spudoratamente a loro? Divine Comedy? Muse? Coldplay? Quanti altri cercano la loro collaborazione?). La voce di Thom Yorke è rappresentativa del passaggio del nuovo millennio: pur essendo fortemente bianca, interpreta con lo stesso fatalismo del blues i moti irregolari e fragili della psiche umana ("Amnesiac / Morning bell"). Fortemente nasali e contenute, le sue interpretazioni riescono a salire rimanendo appiccicate alla realtà, ancorate al dolore, come se l´urlo contenuto nella bottiglia naufraga cercasse di filtrare attraverso il tappo che blocca l´unica via verso l´esterno.
I suoni del gruppi assecondano, costruiscono questo moto alternato di spinta e di repulsione in cui le armonie si compongono e si scompongono continuamente. Un beat dance ("Packt Like Sardines In A Crushed Tin Box"), degli effetti quasi da videogames ("Pulk / Pull revelling doors"), un synth che continua a tornare su se stesso ("Like spinning plates"), una marcetta jazz in stile New Orleans sulle note funeree di tromba, trombone e clarinetto ("Life in a glass house"): i Radiohead stanno creando una nuova tradizione sui resti della precedente (i Beatles di "A day in the life", il Bowie di "Low" e Brian Eno, tanto per fare qualche nome).
L´ossessione di una solitudine incerta è il cuore della loro musica: l´incapacità dell´uomo di cogliere e di assemblare le presunte pienezze del mondo è ben rappresentata dalla perdita della struttura classica della canzone, decostruita con una serie di suoni che giocano sulla ripetizione e quasi anche sull´improvvisazione. Non si può comunque (ancora) parlare di un´estetica dei Radiohead, termine limitativo e troppo intellettuale per chi si addentra nei suoni contenuti nelle paure e nei dolori più intimi dell´animo.
Immaginate una musica che riesca ad accompagnare certi quadri di Münch o certe opere del cubismo o di qualunque arte astratta in cui significante e significato si perdono nei giochi delle forme, lasciando qualche sfuggente direzione in cui addentrarsi. Questo sono i Radiohead che stanno creando una nuova forma di blues, elettronico, ermetico, privo di qualunque pietà e di qualunque possibile redenzione; se la musica del diavolo era un tentativo di reagire e di liberarsi dai propri limiti grazie anche alla carica portata dal ritmo, i Radiohead stanno trasformando questo impulso in un moto che segue l´andamento del pensiero e del suono in sè. Non c´è un armonia stabile che sviluppi un crescendo confortante, ma piuttosto delle sofferenze che si dispiegano senza arrivare ad alcun sfogo e senza sfociare in barlumi di speranza o dannazione ("I might be wrong", "Pyramid song", "Hunting bears"). E forse questo è ciò che di più profondamente vero e nuovo possiamo trovare oggi nella musica.
RADIOHEAD DISCOGRAPHY
PABLO HONEY 1993, PARLOPHONE
THE BENDS 1995, PARLOPHONE
OK COMPUTER 1997, PARLOPHONE
KID A 2000, PARLOPHONE
AMNESIAC 2001, PARLOPHONE