Radiohead Hail to the thief
2003 -
Ennesima tappa di un viaggio intrapreso con “Kid A” e continuato poi con “Amnesiac”, questo “hail to the thief”, pur sviluppando temi già accennati nei precedenti, aggiunge qualcosa di importante ma difetta, però, di quella mancanza di innovazioni che invece caratterizzava in maniera differente ogni altra uscita del gruppo.
L’inizio è dei più scoppiettanti “2+2+5”, “Sit Down, Stand Up” e “Sail To The Moon”, ma si scopre, andando avanti nell’ascolto che l’intensità dei brani scema lasciando la scena a episodi in cui l’ispirazione e la vena artistica del cantante-compositore inizia a mostrare il colore del fondo.
Gli ingredienti, infatti, sono sempre gli stessi: la voce di Thom Yorke, ben lontana da quell’incedere rockettaro del primo periodo, disegna melodie che quasi sanno di già sentito, ci si affida meno, a quei trascinanti riff fatti di poche e azzeccata note circolari scegliendo, invece, un uso maggiore di chitarre e l’uso del pianoforte che da “ok computer” è rimasto lo strumento maggiormente caratterizzante il sound del gruppo.
Le atmosfere sono più cupe e l’incedere complessivo è ancora più lento e oscuro, le sperimentazioni elettroniche (“Backdrifts” e “The gloaming”) ricordano alcuni momenti degli ultimi due album, tuttavia, evitando giudizi affrettati, si riconosce ancora qualche lampo di genialità, come la canzone che chiude il disco, “A wolf at the door”.
L’uscita di questo nuovo album è stata preceduta da una versione degli stessi brani che oggi compongono il disco liberamente diffusa in internet, rubata durante una delle tante esibizioni dal vivo che hanno preceduto la data di pubblicazione ufficiale e che sono servite al gruppo per perfezionare i 14 brani che formano l’album. Le differenze, seppur sottili, si notano negli arrangiamenti e nella aggiunta di qualche orpello elettronico.
Non mancano poi dei riferimenti, più o meno espliciti ai fatti che hanno caratterizzato questo scorcio di secolo; qualcuno infatti ha ipotizzato che il titolo del brano “onore al ladro” riguardasse l’ascesa al potere dell’attuale presidente degli Stati Uniti (notizia smentita dal gruppo in alcune interviste) e in “I will”, si sente il cantante Thom Yorke affermare “Mi rifugerò in un bunker sottoterra, non lascerò che questo capiti ai miei bambini”.
Un disco nel complesso più facile, ma non un prodotto da primo in classifica, e questo non può che essere apprezzato da chi, come me, lamenta una generale inclinazione di molti dei grandi gruppi degli ultimi anni ad abbracciare il successo, causa la evidente minore ispirazione e la conseguente produzione di dischi di minore spessore.
I Radiohead, infatti, consapevoli dell’ inaspettato successo commerciale di ok computer e dalle notevoli vendite dei successivi, avrebbero sicuramente potuto offrire un prodotto più scadente e più orecchiabile, invece hanno mantenuto vivi gli ideali che li hanno accompagnati, riavvicinandosi, però a una scelta compositiva che predilige un ritorno a schemi più “classici”. La loro grandezza è ancora quella di aver sempre cercato di percorrere strade nuove, di lasciare che altri gruppi (i Muse, uno per tutti), continuassero per sentieri da loro intrapresi e abbandonati, alla ricerca di nuovi orizzonti. Anche se quest’ultima strada forse non li porterà molto lontano.
La parabola del gruppo di Oxford subisce, così, una leggera discesa, ma Hail to the thief rimane pur sempre un episodio onorevole della gloriosa saga che porta il nome dei Radiohead.