Il nome di Fabrizio De Andrè è un po’ come quello di Domenico Modugno, dei Beatles e ormai dei Radiohead. E’ facile che sia ostentato tra gli ascolti e i punti di riferimento senza che si meriti di menzionarlo. Certo, leggere che De Andrè riteneva Max Manfredi il “più bravo” è diverso dal cogliere la solita citazione di un nome indiscutibile tra le proprie autorità musicali. Ma la differenza la fa il fatto che Max Manfredi si dimostra ben meritevole del complimento di Faber, di cui in questo disco è ripubblicato il duetto sulle note de “La fiera della Maddalena”, anzi può prescinderne, perché non si colloca nella sua ombra. “Luna persa” ne conferma una volta in più il valore, perché è un disco da leggere, con 11 racconti straordinariamente vividi che proiettano personaggi e storie, delicati, o surreali, o ancora drammatici sul telo della mente, come su uno schermo cinematografico. E’ quindi anche un disco da vedere, senza neanche il bisogno di chiudere gli occhi, come un’esperienza di vite reali in cui imbattersi premendo il tasto play. Ecco allora che basta un verso e sono dischiuse le porte delle esistenze dei viaggiatori nella magnifica “Il regno delle fate”, insofferente ritratto di un universo frenetico pronto ad implodere in un epilogo sospeso tra l’utopia e l’incubo, oppure osserviamo senza fatica i pendolari approdati nella terra mirabolante di un nome sbagliato su un cartello ferroviario ne “Il treno per Kukuwok”. Ci ritroviamo tra le file degli spettatori e dei protagonisti di un arrivismo superficiale, patetico e feroce, in cui ci si svende sfilando davanti ad una giuria che “non distingueva il valore dal prezzo” per “L’ora del dilettante”, sigla del M.E.I. 2008, o ci perdiamo tra lo sfiorire dei sogni e del tempo nel fallimento delle attese romantiche al femminile della realistica e amara “Aprile”. Per poi chiudere gli occhi, nella titletrack, davanti all’orrore di una storia maledetta di un padre e di una figlia, che brucia nella miseria materiale e morale ogni distinzione tra bene e male. Ma queste creature confuse dai ritmi della vita acquistano carne e sangue grazie alle interpretazioni di Max, che adatta toni e registri e modella atmosfere con maestria “cantattoriale”. Le immagini quindi si fanno azione prendendo corpo su un ideale palcoscenico di volti e umori, sicché dall’impressione cinematografica su una sola dimensione si passa al coinvolgimento tridimensionale teatrale, con gli spettatori al di là della quarta parete di uno spettacolo. Componente indispensabile di questa immersione multisensoriale è ovviamente la musica, che non è elemento di contorno, seppure tanta attenzione sia dedicata a temi e testi. Eterei violini e linee di piano doppiate dal glockenspiel sottraggono materia alla concretezza delle parole, regalando un sospiro onirico aggiunto a “Il regno delle fate” e alla struggente malinconia della piccola perla “Quasi”, i soli contrabbassi scandiscono e determinano il ritmo nottambulo di “Terralba Tango”, le percussioni risuonano solenni e cupe, gli archi aggiungono tensione drammatica palpabile. Le corde del mandolino e della chitarra acustica, le nacchere e il taconeo del flamenco costruiscono un corridoio in cui soffia animato il vento gitano di “Libeccio”, mentre nell’Europa Orientale trasporta il soffio dei fiati di “Zimbalom”, che pure in un fascinoso nomadismo musicale è accompagnato dal bouzouki irlandese e dal suono delle cavigliere indiane. La musica solleva quindi polvere di terre e percorsi, e scuote di tanti brividi la pelle degli ascoltatori. Questo è insomma un disco da leggere, da vedere, ma soprattutto, ovviamente, da ascoltare, con l’orecchio teso ai dettagli e alle emozioni di insieme. Un disco da avere.