Mark Knopfler One Deep River
2024 - British Grow/EMI
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Forse è tutto troppo rassicurante, nell’iniziale Two Pairs of Hands sentiamo una batteria leggera, un tema di chitarra cristallino e bluesy (come sarebbe bello un fuzz improvviso, ma Mark non è Howe Gelb). Poi arriva quel suo vocione disincantato e in alcuni momenti pare di ascoltare Chris Rea. Poco cambia, anche lungo l’habanera di Smart Money, col suo passaggio sul quarto grado nello special che preclude a un assolo prevedibile, rinforzato da una pedal steel (che potrebbe essere la novità dell’album), fino alle chitarre più abrasive di Scavengers Yard. Ancora una volta, melodie già sentite, ma testimoni di un mestiere innegabile. Nessun virtuosismo, solo un paio di note prolungate, nel solo, che ricordano persino Neil Young.
La voce carezzevole, piena, profonda, meno roca che un tempo (sembra più giovane che in Shangri-La, 2004), la produzione tenta la via (come direbbe Paolo Conte), ma ritorna al bel suono pieno (post J.J. Cale), che in fondo va benissimo, però non stupisce.
Forse ci si risveglia un poco con Black Tie Jobs, che ha persino qualche eco dei Beatles nell’arrangiamento d’archi, e Tunnel 13, in cui compaiono i cori femminili. C’è addirittura (?) qualcosa di watersiano.
Janine potrebbe essere una out-take da All the Road Running (2006), l’album in coppia con la leggenda della country music Emmylou Harris. La melodia vocale è vagamente springsteeniana. La voce si colloca, se vogliamo, fra Lou Reed e Leonard Cohen. Un altro piccolo azzardo compare su Sweeter Than the Rain, che inizia con solo la voce su un tappeto di sintetizzatore, prima dell’ingresso dell’acustica. Un po’ di Scozia nella melodia. Anche qui, nulla di davvero nuovo, ma serve per forza la novità? Intanto, manca l’assolo e non è Brothers in Arms.
This One’s Not Going to End Well è mesta e noir. Pare quasi di sentire un accenno di Joe Henry. La tenerezza, la pietas e la rassegnazione dolente trovano un’espressione toccante. Il violino sostituisce la chitarra in un breve inciso. Gli accordi minori cullano tutti i perdenti del mondo. E non è poco. Il testo è tutt’altro che criptico: “This one’s not going to end well / But after he’s gone / The gypsy will smile / And the poets will dream / And their fortunes in crystal she’ll tell / As she looks in the glass where the stories are spun / Though this one’s not going to end well / For anyone.”
Si parla di un tiranno, si accenna a come va avanti il mondo. Si parla delle risorse per sopravvivere, come sempre. Cioè la musica, la poesia.
La title track, infine, resta sui toni soffusi dell’album. I cori femminili (di Emma e Tamsin Topolski) rischiarano appena un poco una malinconia che si direbbe senile, se non si conoscesse l’Autore.
Forse, di questo album, non possiamo dire che tra anni lo ascolteremo ancora, mentre Love Over Gold (1982), dei Dire Straits, sarà ancora un caposaldo (anche se chi scrive ha una predilezione per i lavori solisti).
I testi sono, come sempre, piccoli spaccati di vita, in cui si avvicendano affaristi e faccendieri, addirittura becchini, con commiati necessari e l’ombra della stanchezza e della caducità, ma non sono privi di un agrodolce fatalismo. Proprio in One Deep River il baritono di Knopfler dice: “The wild geese are flying / Into the West / And your soul is heading / To its rest / But your light will keep on burning / Like that evening star / And your song will keep returning / Wherever you are”.
Il treno compare più volta, la Frontiera Americana si affaccia come un topos ormai logoro – quasi la scenografia di un teatrino parrocchiale – come la vita del musicista di scarso successo (che non può entrare in una narrazione autobiografica, ovviamente, ma che è tornata più volte dalla celebre Sultans Of Swing o in One More Matinée) e il tutto compone il consueto scenario di figure marginali, le cui considerazioni amare si fanno universali, anche senza vette di poesia o narrazione. Però, in Watch Me Gone, Knopfler si prende la libertà di nominare due icone (ma anche due amici): “Well, maybe I’ll hit the road with Bob or maybe hitch a ride with Van”. Insomma, profilo basso, certo, aderenza a un immaginario, ma anche un po’ di civetteria.
Che dire, dunque, di questo fiume profondo, ma placido? Forse non molto, ma accontentiamoci del fatto che il buon Mark sia tornato, forse non con la sua migliore ispirazione, ma di certo con una classe che pochi hanno saputo, come lui, mantenere intatta nel tempo.