John Mellencamp Trouble no more
2003 - COLUMBIA RECORDS
Da qua si è sviluppato “Trouble no more”, il disco più solista della carriera di Mellencamp: una dozzina di cover folk-blues interpretate quasi da solo. L’accompagnamento di Andy York alle chitarre, acustiche ed elettriche, il violino di e la fisarmonica di sono fondamentali, ma l’ossatura dei pezzi è data dalla voce di Mellencamp. Una voce che reclama la paternità di molto alt-country, ma che soprattutto dimostra la sua appartenenza al blues più negro ed imbastardito.
Chi ancora si stesse perdendo in inutili paragoni con Springsteen, dovrebbe trovare in questo disco la risposta definitiva alla differenza che corre tra i due: il Boss è stato battezzato nelle acque del soul e del rock’n’roll bianco, mentre “Little Bastard” ha ancora le ossa impregnate del fango limaccioso del Mississippi.
Non a caso la prima traccia è “Stones in my passway” di Robert Johnson, tanto per chiarire subito la propria posizione.
“Trouble no more” è un disco fortemente politico, duro e aspro. Immaginatevi Mellencamp incazzato, che si chiude in casa e comincia a sfogarsi suonando canzoni, per rispondere dentro di sé ad un mondo sempre più asservito al potere: oltre ai già citati Robert Johnson e Woody Guthrie, riprendono vita Willie Dixon, Lucinda Williams e qualche traditional. Tutti pezzi che hanno già un loro posto preciso e che Mellencamp ricolloca nell’immaginario americano.
Un disco così è quanto di più logico Mellemcamp potesse fare, ancora più spontaneo di “Rough harvest” e più diretto di “Scarecrow”. Ed è anche una dimostrazione di come si suoni rock: teoricamente non ci vuole molto, ma per raggiungere quest’essenzialità, bisogna aver speso un talento e una vita ad incarnarsi nel folk e nel blues. Così la batteria di “Johnny Hart” colpisce semplice, con un tiro alto e raro, allo stesso modo in cui fisarmonica e violino aggiungono a “Baltimore Oriole” e a “Lafayette” arrangiamenti che sono carezze disperate.
L’unico ostacolo che le canzoni incontrano nell’anima di Mellencamp è quella raucedine indotta da troppe sigarette, ma, una volta che arrivano ad uscirgli dalla gola, anche questa diventa un’arma, uno strumento: “Teardrops will fall” non può trattenersi da stacchi che sono pugni dello stomaco, “John the revelator” è un blues da shouter digrignato con la rabbia di un lupo, mentre “Diamond Joe” è un lamento folk che si alza e prende forza, stanca di una storia che continua a ripetersi.
Chi per fortuna non si stanca mai è John Mellencamp: che impugni una ballata folk o un blues sanguigno, la sua mano non esita. “Trouble no more” è un’(altra) denuncia (ri)scritta di proprio pugno da Mellencamp e indirizzata a sua maestà il Presidente, prima che al proprio pubblico: il monarca di turno farà spallucce e la accantonerà tra la posta non letta, ma noi non possiamo fare altrettanto.