John Mellencamp Freedom’s road
2007 - Universal
E così il piccolo bastardo parte a tutto gas, lasciando dietro di sè una scia di polvere che seminerà il suo primo accorato appello di speranza, una “Someday” davvero travolgente, una di quelle canzoni da cantare a squarciagola con un pugno alzato verso il cielo, magari in uno stadio.
Ed in questo lungo viaggio coast to coast, John raggiunge presto le prime “ghost town”, incontra gli americani in t-short e blue jeans, quelli del midwest che hanno provato a capire le culture del mondo, quelli con l’accento del sud, quelli che a cui hanno raccontato il sogno della terra delle opportunità. I suoi fratelli buoni. I dimenticati.
La strada della libertà è ancora un cantiere aperto e se qualcuno sta cercando il diavolo, forse lo troverà proprio su quella strada in costruzione. Così la musica non cambia, continua decisa a percorrere la via di un rock stradaiolo consueto e consolidato.
Solo “Jim Crow”, che Dylan evocava in “The Death Of Emmett Till”, e il razzismo che ancora lo ringrazia, fermano le danze per un attimo di triste raccoglimento intorno a un fuoco che non brucia la vergogna. Ma poi si riparte, la strada è ancora lunga: “from the east coast to the west coast, down the Dixie highway, back home, this is our country”, canta sconsolato un Mellencamp che porta nel cuore solo le radici migliori della sua America.
Un disco che suona amaro fino alla fine, fino all’ultima lacrima da spendere in un paradiso ideale, che forse non c’è. Un disco che può anche suonare troppo “straniero” per chi vive dall’altra parte dell’oceano, lontano da un paese così ricco di contraddizioni, che ha però sempre cercato di imporsi come modello. E allora onore a John Mellencamp, che in questi giorni affamati, non solo di buona musica, può anche sembrare un piccolo eroe.