Volendo andare direttamente al nocciolo della questione possiamo premettere i seguenti dati; etichetta Rounder, produzione T-Bone Burnett, incisione mono, musica acustica, cornice logistica dei Sun Studios a Memphis e l’hotel di San Antonio dove registrò Robert Johnson.
È evidente che non ci troviamo davanti a ´Uh-Huh´, ´Scarecrow´ o ´The Lonesome Jubilee´, trilogia storica del blue collar rock.
Questo disco sta a John come ´Nebraska´ o ´Devil & Dust´ stanno al Boss, con però un valore aggiunto in termini di vissuto ed un’attenzione filologica.
T-Bone conferma la sua capacità artistica nel tradurre il senso del patrimonio musicale americano in arte moderna, suonando innovativo proprio per il recupero della tradizione; l’etichetta è poi quanto di meglio per questo progetto grazie alla sua indipendenza ed alla sua coscienza del passato.
John ha 59 anni e ne ha passate di tutte; è tempo di bilanci e questo va fatto lontano dai riflettori, con il minimo dei decibel.
I temi predominanti sono la mortalità e la necessità di capire cosa tenere come valori (Save some time to dream), la solitudine (No one cares about me) o la violenza (Easter Eve, che richiama il Dylan dei ´The Times They Are a’Changin´); la musica è essenziale, senza bridges e slanci solistici, ritornelli e riff , arpeggi e divagazioni varie.
Diremmo che si tratta di vero e proprio ´desert rock´ portato ai minimi termini per la scheletricità degli schemi e la polverosità delle sensazioni.
´The west end´, se suonata con verve più psichedelica ed elettrica, starebbe bene in mano ai Dream Syndacate di ´Medicine Show´ ma qui non c’è spazio per le digressioni elettriche.
´Right behind me´ inizia con un violino che sembra silenziarsi da solo in un miagolio reverenziale verso la voce. ´A graceful fall´ pare iniziare alla country e portare qualcosa di più allegro ma dopo le prime due battute prevale una malinconia più honky tonk che da Nashville.
Anche ´Don’t forget about me´ esordisce come una canzone rilassata ma poi si sviluppa con una timbrica da congedo come evocato anche dal titolo; qui si ascolta uno dei pochi bridges strumentali del disco, talmente sommesso che quasi non ce ne accorgiamo.
Un grande disco di un grande artista, pieno di senso della vita e di riflessioni sulla stessa convocando attorno a sé i fantasmi di una storia che vale per tutti; un lavoro che ciascuno dovrebbe ascoltare e capire ma temiamo che pochi vorranno accettare lo sforzo.
Speriamo di sbagliarci, per contro noi lo inseriamo direttamente nella play list dell’anno.