Drive-by Truckers The dirty south
2004 - New West Records
Il risultato è ovviamente migliore dell’album registrato in solitaria da Patterson Hood, perché qua alle ossessioni di un singolo si aggiungono quelle di altri quattro ragazzi del Sud, il che basta per mettere insieme una storia che va oltre i limiti di un’amara riflessione personale.
Il nuovo disco dei Drive-by Truckers riparte da dove era terminato “Decoration day”, che probabilmente rimane il punto più alto fin qui raggiunto: guidati da un’attrazione quasi morbosa per le crude storie della loro terra e della loro gente, Hood e compagni si sono ormai creati un’iconografia, che si propone come anello di congiunzione tra l’immaginario southern e quello hard rock (il che poi non è molto distante dalla definizione del loro suono).
L’abilità della band sta infatti nell’essersi creata una storia e un suono che vanno di pari passo: non inventano nulla di nuovo, tanto che, nel loro schitarrare impetuoso, si possono scorgere gli Stones come gli Ac/Dc, i Crazy Horse come tante folk songs.
Il rischio è quello di ripetersi, che poi è quello che succede in questo album, ma va detto che i DBT costruiscono sempre e comunque una loro trama: questo li riscatta e non li lascia come altri a ristagnare tra l’Americana e l’alt-country.
“The dirty South” presenta in modo ancora più esplicito dei precedenti la mitologia del Sud degli States, di quelle provincie dimenticate e reiette, socialmente appiattite come il loro territorio pianeggiante. I Drive-by Truckers sono proprio come quei villaggi rasi al suolo dai tornado: ogni volta sembrano finiti e invece azzerano tutto e si ricostruiscono da sé, con una scorza ancora più dura e coriacea.
Questa è la forza e anche il limite di “The dirty South”, quattordici pezzi che suonano spietati fino alla stremo, con gli occhi iniettati di sangue e di rancore.
Che rimandino alle dust bowls della Grande Depressione, allo sfruttamento delle amministrazioni reaganiane o alla storia del r&r, i DBT affrontano sempre una realtà delusa. Anche le loro canzoni vivono della stessa disperazione, al punto che è difficile stabilire fino a che punto l’acredine del disco sia segno di compattezza o di ripetizione: la voce di “The Sands of Iwo Jima” annaspa come il country stantio di “Daddy’s cup”, ma è quanto di più consono ci possa essere per un paesaggio così desolato.
A tenere alto il tiro del disco sono sempre la robustezza della band e la scrittura di Mike Cooley, Patterson Hood e Jason Isbell, quest’ultimo ormai entrato a pieno titolo nei ranghi della band. Ma alla fine a penalizzare “The dirty South” è proprio l’estrema coerenza con cui riproduce la sfacelo umano e la mentalità grezza di una certa parte degli States.