Drive-by Truckers English Oceans
2014 - ATO Records
Basterebbe forse questo sintetico giudizio per inquadrare questo English Oceans, il nuovo album dei Drive-By Truckers uscito già da qualche mese che segue, a circa tre anni di distanza, il precedente Go Go Boots.
Nati negli anni Novanta, forti ormai di una nutrita discografia di cui questo nuovo album rappresenta il decimo episodio in studio, a cui vanno ad aggiungersi due album dal vivo ed una compilation di outtakes e rarità (che include, tra le altre, una bella cover di Like A Rolling Stone, registrata originariamente per l’album tributo a Highway 61 Revisited realizzato dalla rivista Uncut nel quarantesimo anniversario della sua pubblicazione), i Drive-By Truckers vengono spesso inseriti nel calderone, sin troppo vasto e assai poco definito, del cosiddetto alt country.
Caratteristica peculiare della band è invece certamente rappresentata dal profondo legame con il Sud degli Stati Uniti, da un punto vista geografico – nascono infatti nella città universitaria di Athens, Georgia -, musicale – basti pensare al doppio album Southern Rock Opera in cui ripercorrevano l’epopea dei Lynyrd Skynyrd e la sua tragica conclusione – e persino genetico – il babbo del leader altri non è che David Hood, leggendario bassista, fondatore dei Muscle Shoals Studios e session men di lusso coinvolto in mille registrazioni con artisti di grande fama (e, tra l’altro, tuttora attivo: notizia di qualche mese orsono, il suo approdo alla corte di Mike Scott per partecipare alla registrazione del nuovo album dei Waterboys).
Nel corso della sua storia, la band ha presentato una line up estremamente variabile – da non dimenticare, in particolare, il passaggio nelle sue fila di Jason Isbell, tra il 2004 ed il 2006, prima di intraprendere la sua brillante carriera solista – ed anche in questa occasione non smentisce questa sua consolidata abitudine, presentandosi con una formazione ancora una volta rinnovata.
Esce di scena la bassista Shonna Tucker (ex moglie dello stesso Isbell) - già titolare di un album solista (A Tell All) - rimpiazzata da Matt Patton (in precedenza membro di un’altra southern band, i Dexateens) così come Johnny Neff, polistrumentista in grado di cimentarsi con svariati strumenti a corda – dobro, pedal steel, slide guitar e via elencando.
Una partenza, quella di Neff, che ben si concilia con l’indirizzo stilistico di questo nuovo album, che lascia in secondo piano le sfumature di stampo “Americana” per puntare, nella maggiore parte dei brani, su un sound più marcatamente rock, in cui le chitarre elettriche svolgono un ruolo predominante, con evidenti rimandi ai padri nobili – Stones e Neil Young su tutti, oltre naturalmente ai consueti riferimenti sudisti – con le tastiere che affiorano solo in alcuni brani e i ritmi che rallentano solo nella seconda parte dell’album, dopo un inizio con il piede ben pigiato sull’acceleratore.
Altro elemento di novità, è un apporto molto più accentuato rispetto al passato in fase compositiva di Mike Cooley che assume in occasione un ruolo sostanzialmente paritario con Patterson Hood nella scrittura dei pezzi, ponendo la sua firma in calce ad alcuni dei pezzi più riusciti del disco.
Proprio alla penna di Cooley, si deve infatti il brano di apertura, scelto anche come singolo, Shit Shot Counts nel cui finale fa capolino una bella sezione fiati, degna di un disco southern soul della Stax (la lezione di Hood padre, evidentemente, non è stata mandata a memoria solo dal figlio, essendo l’arrangiamento dei fiati curato dal tastierista – e chitarrista aggiunto – Jay Gonzalez), a cui fa seguito When He’s Gone, firmata invece da Patterson Hood, cavalcata elettrica che rimanda al Neil Young di Rust Never Sleeps.
Proprio la perfetta alternanza tra i brani composti (e pur cantati, con l’unica eccezione di Til He’s Dead or Rising, scritta da Hood ma con Cooley alla voce solista) dai due membri fondatori della band è l’elemento che caratterizza il disco, riuscendo così a creare un riuscito equilibrio tra i due differenti stili compositivi.
Molti gli episodi che rifulgono di luce propria, seppure in un contesto di livello decisamente elevato ed omogeneo: tra i brani firmati da Patterson Hood, menzione d’obbligo per Pauline Hawkins, ritratto di una donna assai disillusa ispirato da un romanzo di Willy Vlautin (scrittore tradotto anche in Italia, ma anche cantante e leader dei Richmond Fontane, ottima band della scena Americana, e fresco di pubblicazione del lavoro d’esordio della sua nuova band, The Delines), The Part of Him, che tratteggia invece uno spietato profilo (his own mama called him a SOB…. e peggio di così davvero non è possibile) di un politicante corrotto - argomento che, a quanto pare, non è in discussione solo alle nostre longitudini - e la finale Grand Canyon, splendida elegia in memoria di Craig Lieske, collaboratore della band ed in passato manager del 40 Watt Club di Athens, deceduto nel gennaio del 2013 per un attacco cardiaco, a cui i Drive-By Truckers dedicano l’intero album.
Invettiva politica anche per Mike Cooley nella (quasi) title track ovvero Made Up English Oceans ispirata alla figura di Lee Atwater, attivista repubblicano nelle campagne elettorali di Reagan e di Bush senior negli anni ’80, che firma poi Primer Coat, denotando un gusto per la melodia certamente più spiccato di quello del suo socio e Hearing Jimmy Loud, il brano certamente di più immediato impatto dell’intero lavoro, una classica rock song di quelle costruite su un riff che sentito una volta non si scorda più.
A queste si vanno ad aggiungere Natural Light, in cui le classiche chitarre della band dialogano con un piano stile honky tonk e la bella ballata acustica First Air In Autumn, a dimostrazione di una apprezzabile versatilità compositiva.
Un disco che conferma quindi i Drive-By Truckers tra le band più interessanti della scena rock americana, riportandoli ai livelli delle loro migliori uscite discografiche precedenti, quali The Dirty South o Brighter Than Creation’s Dark, in attesa – o nella speranza – di vederli protagonisti su qualche palco italiano nel prossimo futuro.