Bocephus King All children believe in heaven
2003 - TONIC RECORDS
In questi tre anni, invece di “smettere”, si è buttato ancora più nella spirale del gioco, insoddisfatto di un suono che era già un affronto al mainstream e agli abitudinari del rock. Così ha abbandonato i Rigalattos, ha raccolto tutto ciò che gli era rimasto dello swing/blues/vaudeville/canzone d’autore degli album precedenti e ha seguito l’istinto.
“All children believe in heaven” è un disco che nessuno si aspettava, enorme, come il suo autore, fisicamente e musicalmente: Bocephus ha fatto le sue mosse con l’astuzia consumata e con lo sguardo cinico del giocatore incallito. Attorno un mondo che si è caricato di confusione e di incertezze: personaggi di dubbia onestà si succedono al tavolo, predatori e prede spasimano per un colpo di fortuna. Bocephus li guarda con un sorriso ironico, senza perdere di vista l’andamento del gioco.
Non siamo a Broadway, non siamo ad Hollywood, né tantomeno in un casinò, luoghi ormai troppo artefatti, troppo conservatori, in cui fantasia e follia non sono ammesse. Questa è Chinatown: luci e colori sgargianti, un nuovo melting-pot in cui le razze non si distinguono, in cui le tradizioni spasimano per il moderno.
Bocephus è attratto dai banchetti di scommettitori in bilico tra il marciapiede e la strada, fa le sue puntate al tempo della musica orientale che viene dai locali, arraffa le ultime trovate tecnologiche dalle vetrine, si fa ammaliare dai sapori più disparati.
Ne deriva una musica che è un infuso dal sapore intenso, che farà storcere il naso a qualcuno: samples ed effetti elettronici si aggirano nel disco, diventando parte integrante delle canzoni, ma è soprattutto un nuovo gusto ad alterare il soul, a dilatarlo con una gamma di strumenti che vanno dal synth all’omnichord, dallo xilofono alle campane, dall’organo alla mandola.
Bocephus azzarda una forma di canzone d’autore sperimentale: la sua voce è ancora padrona, i cori tirano i pezzi con veemenza, mentre in fase di composizione e di arrangiamento c’è un’esuberanza nuova, evidente sin dai dieci minuti dell’iniziale “St. Hallelujah”. Niente è tratttenuto: il rock teso di “Wreck of the century” subisce la spinta di samples concentrici, i brani più soul vengono speziati, caramellati o messi in agrodolce.
Non c’è pietà per nessuno: ”le melodie sanguinano / i messaggeri sono maledetti / i debuttanti sono sbattuti fuori”. Dylan e Tom Waits sono portati all’ennesima potenza fino a scomparire, Johnny Cash è un fantasma che si aggira dietro “They love each other” e Muddy Waters, che recita blues all’angolo della strada, è solo una delle tante comparse.
Nonostante le ninnananne di “Lullaby blues” e “Stella bella blue”, il mondo è votato all’autodistruzione: Bocephus sa che oggi il rock è una questione di sopravvivenza più che di salvezza, e questo disco è il suo “survival trip”.
L’azzardo finale è uno strumentale folk-blues con riflessi del Sol Levante e luccichii elettronici. Sembra un paraddosso, ma è perfettamente logico: l’unico modo per uscire da questo gioco, è continuare a puntare. Bocephus l’ha capito e rischia di diventare una delle voci più creative di questo pazzo millennio.