Bocephus King Willie Dixon God Damn!
2011 - Tonic
L´ottima performance del cantautore di Vancouver assembla sonorità e stili molto diversi fra loro. I pezzi sono costruiti mischiando principalmente strumenti acustici, con la batteria del tutto assente o in secondo piano, rimpiazzata da efficaci intrecci percussivi. Sono in particolare quattro gli episodi - tutti brani-monstre tra i 5 e i 10 minuti - che definiscono al meglio la personalità del disco. Ambiziosa, ricca, cinematografica, Your great big beautiful heart inizia con cori femminili morriconiani, seguiti un´affascinante nenia che rieccheggia sonorità maghrebine, fino all´intervento diretto e spiazzante di una voce in arabo. Gioca con i suoni del mondo Bocephus, e li riconduce alla coerenza del suo progetto, come in That´s not love e The job, due canzoni ambiziose, tra le più riuscite di Willie Dixon God damn! La prima è costruita sul canto stridulo di un violino, sostenuto da sensuali ritmi sudamericani; la seconda poggia su una solida base di percussioni africane, che con il ritmo funky del basso forma un magma sonoro denso e scuro, inframmezzato da molta armonica e chitarre rumoristiche.
Completa il quartetto la conclusiva So many hells: su una melodia da ballatona country-western si innesta un delizioso affresco dixieland, che va a sua volta a schiantarsi su un finale rumoristico, tra voci di bimbi e risate. Tre canzoni in una, senza soluzione di continuità: l´amico Bocephus se lo può permettere, come anche nell´iniziale The beast you are. Su tredici tracce, soltanto un paio si possono archiviare sotto l´etichetta di riempitivi. Broken down rock´n´roll machine, languida e suadente, è sostenuta da una grande voce da crooner e sarebbe piaciuta a Willy DeVille, anche se mi ricorda di più (non posso farne a meno...) qualcosa di Billy Idol. L´assolo finale del sax aggiunge una ciliegia sulla torta, quando ci sembrava di avere già la bocca piena. The myth of Philadelphia, tra soul e pop, rimanda alla classe e alla delicatezza di un altro grande cantautore, il vecchio Graham Parker, che mi gira nella testa anche per The beast you are, mentre fiati, organo e spirito di Bastards sono vicini allo Springsteen del secondo disco, The wild, the innocent and the E-Street shuffle (1973). Cowboy Neal, nitido country-folk ritmato dal battere della mani, evoca un altro maestro: Ry Cooder.
Si potrebbe continuare a lungo, magari sottolineando altre raffinatezze negli arrangiamenti: dall´uso delle voci femminili, che aprono orizzonti insospettabili in That´s not love e Bastard, agli interventi ben calibrati della pedal-steel; dalle note sospese del piano che spuntano qua e là, tanto pudìche quanto indispensabili, alle sferzate abrasive dell´armonica. Ma perché togliere il piacere della scoperta? Willie Dixon, nume tutelare, benedice da lassù, anche se di blues qui ce n´è poco. C´è solo un grande disco.