Ryan Adams Gold
2001 - LOST HIGHWAY
Il fatto è che l’attuale condizione del rock americano, colmo di interpreti del passato, contribuisce a creare un limbo in cui artisti derivativi si mescolano con pochi talenti dotati di creatività. Emergere da questa dimensione aleatoria e in perenne sospensione comporta difficoltà simili a quelle richieste da un ascolto votato alla ricerca di portatori sani di originalità e di personalità.
Mi sembra di poter collocare Ryan Adams in questa categoria non tanto per il suono, un rock’n’roll sodo e fresco ma non certo nuovo, quanto piuttosto per la sua scrittura e per le sue doti di interprete. Sin dai tempi dei Whiskeytown, Ryan si è dimostrato dotato di una prolificità fuori dal comune che lo porta tuttora a sopravanzare il ritmo delle sue uscite e ad aver sempre un disco o due in attesa di essere pubblicato. Tanta ansia creativa si riversa nelle sue canzoni che rivelano un’attitudine beat sia nei testi sia nella forma: ascoltando le parole che Ryan canta col suo incedere accelerato, come se fosse sempre all’inseguimento di qualcosa o qualcuno anche nei pezzi più lenti, non riesco a tener lontana l’immagine di Jack Kerouac e dei suoi amici beat che sfrecciano in auto da una costa all’altra. Con tutte le dovute differenze, questo giovane apolide americano ha un approccio verso la canzone rock talmente carico di istinti e di bisogni da ricordarmi l’intensità irriverente e indomita della voce beat. Al canto poi, soprattutto nei pezzi più accesi, ha certi passaggi incalzanti in cui si mangia letteralmente le parole come succedeva proprio alla scrittura della generazione nata attorno a “On the road”, tra l’altro affamata di musica senza pause né sconti proprio come Ryan Adams. Mi piace immaginare Neal Cassady lanciato su una freeway con il vento a rovistargli i capelli e un braccio fuori dal finestrino, mentre da una frequenza all’altra della radio si spara ora dei pezzi di bebop ora di rock’n’roll, tra cui magari qualcuno da “Gold”.
Non è un caso che il disco cominci con una canzone dedicata alla Grande Mela (“New York New York”) e una a Los Angeles (“Goodbye Hollywood boulevard”) a testimoniare lo spazio che riempie queste canzoni e anche la vita del loro autore in perenne viaggio da un estremo all’altro. La bandiera americana in copertina va intesa come una controversa dichiarazione d’amore, più che come un richiamo patriottico; ogni riferimento a Springsteen poi cade dal momento che “Gold” non ha l’impatto sociale né la potenza sonica del Boss e della E street Band. Questo ragazzo, con una grande dose di incoscienza, punta altrove verso una terra promessa più personale, a cui resta solo un desiderio istintivo di felicità.
Bucky Baxter, già chitarrista di Dylan, Adam Duritz, voce dei Counting Crows, e Chris Stills, figlio del celebre Stephen, servono solo a riempire quei pochissimi momenti in cui Ryan stacca le mani dal volante e volge lo sguardo alla cartina stradale. Per il resto è il suo ardore a coprire tutte le distanze di queste sedici canzoni, a bruciarle e confonderle fino a cancellare qualunque traccia lasciata da chi lo ha preceduto (The Band e Gram Parsons su tutti).
Ballate come “Some how some day” e “Wild flowers” riconciliano con il rock’n’roll e lo salvano da nuove inutili promesse: niente salvezza o terre da sogno, ma solo l’illusione di inseguire qualcosa che luccica all’orizzonte. Forse un miraggio, un tramonto o solo il riflesso di un grattacielo di Manhattan, ma, se si vuol guardar lontano, è quanto di più credibile ci sia di questi tempi.
Discografia:
RYAN ADAMS DISCOGRAFIA Gold 2001, Uni / Lost highway
Heartbreaker 2000, Bloodshot
Pneumonia (Whiskeytown) 2001, Lost highway
Strangers Almanac (Whiskeytown) 1997, Uni / Outpost
Faithless street (Whiskeytown) 1996, Uni / Outpost