C’è chi pensa, forse lamentando i primi sintomi dell’indigestione, che Ryan Adams stia sprecando il suo genio e chi invece, forse bulimico, è convinto che tutta questa abbondanza creativa meriti di essere divorata.
Di fatto, dopo “Gold”, il capolavoro che tutti si aspettavano non è mai arrivato: le “caramelle” di “Demolition” avevano tutta l’aria di essere delle outtakes del sacchetto di “Gold” e “Rock’n’Roll” sembrava il suo compitino (insufficiente) per il ritorno in grande stile del rock, dopo qualche anno di movimento acustico. Poi è arrivato il migliore “Love His Hell” (inizialmente edito in due parti), che limitandosi alle dieci migliori canzoni avrebbe potuto essere davvero un grande disco.
Ma non è da lui limitarsi, tanto che il lavoro successivo è un vero e proprio doppio album. “Cold Roses” è un buon disco, che vira musicalmente dalle parte dei Grateful Dead e dei Byrds, ma ancora troppo abbondante e dispersivo. Meglio “Jaksonville Nights”, un altro disco del 2005, dove il nostro ci regala, ancora accompagnato dai bravi Cardinals, “solo” 14 canzoni, omaggiando questa volta il country di Gram Parsons.
Così, per mantenere le promesse, anche se in Italia è arrivato solo a gennaio, lo scorso anno ha pubblicato il suo terzo lavoro, questo “29” prodotto da Ethan Johns.
Proprio grazie alla sua presenza, Johns aveva già collaborato alla realizzazione di “Heartbreakers” e “Gold”, nutrivo grandi attese per questo disco che, bontà sua, contiene solo 9 pezzi.
Le premesse erano quindi ottime. Il risultato? Uno dei dischi in assoluto peggiori di Ryan Adams, il miglior esempio di come sprecare un talento, in favore di una vantata anarchia musicale.
Qui si passa dall’elettrico country blues della title track, fiammata che si spegne lentamente nella languida “Strawberry Wine”, alla pianistica e coinvolgente “Nightbirds” che si addormenta sulle note di “Blue Sky Blues”. E viene proprio da arrabbiarsi ascoltando quella voce che potrebbe regalare emozioni ben più profonde, inchinarsi su note così stanche, degne del peggior Elton John.
E nemmeno l’ennesimo buon inno alla Carolina riesce a dare quello spessore che si esige da chi ha dimostrato di avere la classe per fare grande musica. E invece questa è un’altra occasione sprecata, canzoni incompiute, scarne fino all’osso e fino alla fine, con le insignificanti “Elisabeth You Were Born To Play That Part” e “Voices”.
Non vorremmo che Ryan Adams diventasse uno di quegli artisti che dopo un paio di capolavori lasciano in eredità solo tante croste. Insomma per fare una bella opera non basta continuare a imbrattare le tele. Da lui, che è un pittore e non un tintore, ci aspettiamo che torni a dipingere.