Malcolm Holcombe I never heard you knockin’
2005 - Self produced
Un peccato, perché, dopo un disco splendido come “Another wisdom” del 2003, questo cantautore avrebbe meritato di aumentare la propria visibilità. Comunque, da vero artista e da vero folksinger, lui non se ne è stato con le mani in mano e ha deciso di registrare un pugno di pezzi acustici, autoprodotti, solo voce e chitarra, come nella miglior tradizione americana.
“I never heard you knockin’” è diventato così il suo disco più fiero e personale: già il titolo potrebbe essere un’allusione a quel mondo dell’industria discografica che non ha certamente bussato alla porta di casa sua come un amico.
Quando poi si comincia a lasciar scorrere le canzoni, è subito evidente che l’autore ha optato per una forma più essenziale possibile, quasi volesse dar sfogo alla sua natura più profonda, a quella voce più autentica che giace nel fondo della sua anima.
Sin da “Sittin’ sad” l’album si presenta come una raccolta ostica, che non concede nulla ad un ascolto estemporaneo: canzoni secche, asciutte, offerte con un’interpretazione impietosa che ne rimarca il carattere sofferto, colmo di rancore. La forza del disco sta proprio nella voce di Holcombe che suona quanto mai carica di un significato, di uno sguardo che va oltre la sfera personale, arrivando ad investire una realtà ben più vasta: si capisce così come la mancanza di arrangiamenti sia stata una necessità dettata non dalle sfavorevoli circostanze contrattuali, ma dalla natura dei pezzi che è in tutto e per tutto folk.
Holcombe tira le sue canzoni, le sferza quasi maltrattandole con il blues, tenendone il controllo a breve distanza senza mollare mai la presa: sembra di vederlo cantare a briglia stretta, digrignando i denti anche su quei pezzi con un minimo di melodia come “For the love of a good woman”, in cui è lui stesso a dichiarare il suo modo di cantare (“I’m gonna sing like a slave / ‘cause there’s nuthin’ left”).
Se ad un primo ascolto il disco suona a tratti limitato e mono-tono, è solo perché le canzoni di Holcombe hanno una scorza dura, non si sciolgono in bocca, tanto che l’autore le mastica fino a biascicarle come nella tradizione del folk-blues. Su tutte spiccano “Not who you´re thinkin´ of” e “This town knows me”, ma ogni pezzo cresce aspro, con una chitarra acustica suonata con forza, a rimarcare i temi delle canzoni che si soffermano su un amore che se ne va, su una vita che si consuma inesorabilmente fino a vedere comparire lo spettro della morte.
Sono canzoni tormentate, che non si danno pace, come viene ripetuto in più di un’occasione: “listen to the restless thinkin’ in my head”, “my mind plays tricks in the silence”. Canzoni che mettono Malcolm Holcombe su quel sentiero percorso da gente come Stephen Foster, Woody Guthrie, Bod Dylan, Johnny Cash e Tom Russell, solo per citarne alcuni.