Malcolm Holcombe Come Hell or High Water
2018 - Proper / IRD
In tempi in cui, come in un mantra a rilascio periodico, ricorrono domande abusate, prima fra tutte quella se “Il rock è morto?” anche noi ci chiediamo se il folk possieda ancora la capacità di trasferire il proprio messaggio socio culturale? la risposta è si, purché l’artista che lo propone sia riuscito a defibrillare il proprio cuore ormai pietrificato dall’omologazione imperante.
Noi vogliamo bene a Malcolm Holcombe, non in modo pietistico conseguente alla sua complessa vicenda personale bensì perché è un musicista con gli attributi, uno di quelli che fa il suo mestiere con impegno, serietà, insomma un valoroso professionista, a cui aggiungiamo che è un uomo che quando incrocia la tua strada, lascia il segno anche e soprattutto come persona, gentile, mite, disponibile che non si dà la minima importanza; lui possiede una voce pazzesca, per profondità e drammaticità ed il suo picking chitarristico, deciso e potente, scava e accompagna le canzoni come fosse una backing band.
“Up on the Blue Ridge Mountains, there I'll take my stand” cantavano i Grateful Dead in I've Been All Around This World e così è stato per Malcolm Holcombe, vi è ritornato sugli Appalachi (ormai da tre lustri) dopo una vita che si stava bruciando come un tizzone ardente, nel luogo delle origini, con una compagna amorosa, un figlio e finalmente il ritorno alla vita. Ma se da un lato l’aria di casa è servita a riportarlo ad una condizione esistenziale migliore, non è stato sufficiente per fargli dimenticare le situazioni ed i personaggi che hanno popolato tutti quegli anni disperati, laggiù a Nashville e dintorni, pertanto in ogni suo album continuano a riecheggiare i fantasmi di quella tremenda esperienza e ciò ben lo si evince fin dalla bella copertina di Come Hell or High Water, come sempre piuttosto dark nel suo messaggio.
In questo tredicesimo album Malcolm prosegue imperterrito nella sua strada maestra anche se ci consegna un lavoro più prodotto rispetto a quelli del passato, ciò grazie all’intervento di Marco Giovino (straordinario batterista e da tempo produttore) che si aggiunge al fido Jared Tyler ma anche alla presenza al piano e alle armonie vocali della copia regina del folk del mid west, Iris Dement e Greg Brown.
Una piccola critica che gli viene mossa è che la sua produzione, che procede a ritmo serrato, finisca inevitabilmente per calpestare le stesse mattonelle, può essere ma a noi ascoltare ogni nuovo lavoro di Holcombe crea sempre emozione, è vero, forse lo è stato maggiormente altrove, nelle prove probabilmente più convincenti, ma anche qui, in un disco il cui ascolto ci richiede un po’ di attenzione in più per permetterci di diventare “amici delle canzoni”, il suo singing-songwriting funziona ben al di sopra della media e fatto empre della stessa miscela di blues, folk, delle radici.
Ah, dimenticavo, le canzoni?! Ai vecchi fan non serve leggere l’odiosa e insopportabile cronaca canzone per canzone, mentre chi si approccia ora a Holcombe, apra orecchie e cuore per ascoltare uno dei più bravi cantautori americani contemporanei.
Con questo album il nostro amato artista sembra dirci: Costi quel che costi (questo è il significato letterale del titolo), ma io ve le canto e suono così, vedete voi cosa farne di queste canzoni, io comunque non cambio. E noi ce le teniamo strette.