Joe Henry Tiny voices
2003 - ANTI / EPITAPH RECORDS
È invece un ulteriore scarto nella direzione dell’artista, proprio come “Scar” lo era stato rispetto a “Fuse”, e come, a ben vedere, ogni disco di Henry lo è stato rispetto al suo precedente. Questa è l’unica consequenzialità che si trova in un musicista che ha esordito come cantautore roots e che ora si trova a suonare una canzone d’autore d’avanguardia.
Un cammino non da poco, che ora fa tappa in casa della Epitaph, che già aveva ospitato Joe Henry per la produzione dello strabiliante “Don’t give up on me” di Solomon Burke.
Joe Henry è uno che, strada facendo, ha preso il vizio delle passeggiate notturne: ogni tanto si ferma ad un angolo, scambia due chiacchiere con un barbone o con un busker nei corridoi del metrò, entra in un locale per un drink, come se ci fosse arrivato per caso, e si incontra con dei musicisti jazz, di quelli che amano suonare a tarda ora. Li invita per il suo nuovo disco, anzi, li invita a casa sua, che poi è la stessa cosa, li ospita per cinque giorni e, per metterli a loro agio, lascia ad ognuno la libertà di arredarsi una stanza.
Suonano in salotto, è l’unico posto dove si può farlo insieme, lasciano porte e finestre aperte: entra il profumo fresco e profondo della notte, che spinge a suonare, prima che gli strumenti si inumidiscano e la voce si raffreddi. Joe Herny canta, ma non ha tempo di creare storie e personaggi, canta le voci che ha in testa, quelle voci che poi sono solo una, la sua, ma che in effetti sono tante perché provengono da un fluire di posti e situazioni. Sono ricordi, sprazzi di coscienza, punti di vista che hanno in comune uno sguardo marginale, un punto d’osservazione distaccato: ogni tanto sembra che Joe Henry lasci la sala, si sieda sulle scale che portano al piano di sopra e da lì osservi il suono che sale dai musicisti.
È come in un film dove tutto è sul punto di succedere, ma non accade: una bandiera che sventola senza senso, parole che risuonano dalla Bibbia, un circo che dà spettacolo a un pubblico assente, una rivoluzione sul punto di esplodere, un attimo che tramuta i giorni in destino.
Così anche la musica: il jazz che non è jazz, una canzone d’autore che è un animale in libertà, uno swing randagio e un progressive dal passo zoppicante. E le canzoni? Joe Henry sta sulle sue, le canta con sempre meno immediatezza, sembra voler fare il distaccato, ma dentro la sua musica gode e lui lo sa, è orgoglioso che gli appartenga, sa di aver fatto qualcosa che è “free of vulgar beauties that I know / will fade away”. Con una musica così in casa, anche quella miliardaria sorella di sua moglie potrebbe un giorno trovarsi rapita dalla qualità.
Ha di che essere soddisfatto Joe Henry. Almeno fino a quando l’inquietudine tornerà a farsi sentire e lo obbligherà ad uscire di nuovo per fare due passi nella notte.