Il percorso artistico di Joe Henry è cominciato parecchio tempo fa. Al suo interno però ci sono stati due punti di svolta fondamentali: il primo arrivato con ´Trampoline´, più di dieci anni fa, in cui si cominciava ad avvertire da parte dell’artista, roots fino a quel momento, un’ansia nuova. Questa è sfociata in un nuovo modo di fare canzoni: più lente, fumose, distese e notturne, alla ricerca di una propria identità che è stata pienamente afferrata con l’uscita di ´Tiny voices´ dopo ´Fuse´ e ´Scar´. A quel punto è cominciata la vera e propria solidificazione del linguaggio proprio dell’artista, del suono e della continuità atmosferica che scorre per tutte le tracce dei suoi album. Questa originalità, accompagnata da maturità e complessità nuove risultano evidenti nei tre album che segnano questo ultimo periodo della sua carriera, nei quali sembra aver interiorizzato l´essenza delle collaborazioni avute con Ornette Coleman, Brad Mehldau, Marc Ribot, ed essere in grado di riesprimerle a suo modo. Infatti seppur le vicinanze ad autori come Costello, Waits, Newman, si sentano ancora, allo stesso tempo penso che da ´Tiny voices´ in poi anche il suono dello stesso Henry sia diventato un riferimento indicato e da indicare. Un caso su tutti è quello di Capossela, che per certi versi ha un utilizzo i fiati, in particolare con l’arrivo di Gabrielli nell’ultimo lavoro discografico, che ricorda molto da vicino le irregolarità che percorrevano i soli di clarinetto in ´Tiny voices´.
Così fra ´Tiny voices´, ´Civilians´ e quest’ultimo ´Blood from stars´ ci si trova in difficoltà tanto a paragonarli quanto a farne una classifica qualitativa: sono tre dischi di Henry, differenti come è giusto che sia, qualitativamente eccellenti come dovrebbe essere, onirici e nascosti come gli sprazzi lirici che i testi lasciano emergere.
´Blood from stars´ si apre con un preludio pianistico disteso che lascia di lì a poco il posto ai brani cantati. Anche qui non mancano le collaborazioni, dal giovane e brillante pianista jazz Jason Moran che suona il preludio, a Ribot che arriva in ´The man I keep hid´ e ´Bellweather´ e porta le sue sequenze chitarristiche dal sapore romantico. È un disco disteso e che forse più degli altri sa prendersi tempi propri: quelli dei brani dalle linee vocali forti ed incisive come ´Channel´, oppure delle ballate con chitarre pizzicate e vicine al flamenco di ´This is my favorite Cage´, oppure dei brani più vicini al blues come ´Hall blues hail Mary´, e così via con le influenze jazz, quelle alla Sinatra, i rumorismi e le sperimentazioni.
Insomma ´Blood from stars´ è un disco dell’ultimo Joe Henry: cinematografico e atmosferico, scuro e iridescente, immediato e ricercato. Non basta?