L´apertura suscita subito un brivido che vi percorrerà la schiena a lungo: "Richard Pryor addresses the nation" è una ballata lenta e scarna squarciata dall´assolo al sassofono di Ornette Coleman (!) che dà una scossa improvvisa al brano facendolo salire in alto come una invocazione.
"Stop" potrebbe essere un grande singolo e così anche "Mean flower" che chiude il trittico iniziale confermando la grande vena della scrittura di Joe. Le sue canzoni richiamano quegli attimi in cui lo sguardo si ferma impotente di fronte all´ineluttabile per poi sfuggire lasciando solo una vaga sensazione sotto pelle.
Che giochi con le malinconie romantiche del piano di Brad Mehldau, con le note calde e misurate della chitarra di Ribot o con i densi giri di basso di Nedegeocello, tutto il disco è un insieme compatto di moderno e antico, di notte e luce, di ritmi e pause che la voce di Joe amalgama con quel tono umido e conciso come il rumore della pioggia sull´asfalto.
Basta ascoltare la schizofrenia disordinata di "Nico lost one small Buddha" o i toni crepuscolari di "Scar" che contengono geni che chi ama Joe Henry non farà fatica a riconoscere.
Lo stesso vale per una ballata in bianco e nero come "Cold enough to cross" e anche per la splendida performance dell´orchestra in "Edgar Bergen" colma di lucide sospensioni e ripartente furiose. Così facendo abbiamo ormai citato quasi tutte le canzoni del disco che viene chiuso da una ghost track improvvisata dalle visioni solitarie del sassofono di Ornette Coleman. È un´alba abbagliante dopo tanto rock notturno immerso nel jazz e in tutto quanto riesce a stare lontano dalle luci del mondo.
Candidato a disco dell´anno.
DISCOGRAFIA:
TALK OF HEAVEN 1986, PROFILE
MURDER OF CROWS 1989, MAMMOTH
SHUFFLETOWN 1990, A&M
SHORT MAN´S ROOM 1992, MAMMOTH
KINDNESS OF THE WORLD 1993, MAMMOTH
FIREMAN´S WEDDING 1994, MAMMOTH
TRAMPOLINE 1996, MAMMOTH
FUSE 1999, MAMMOTH
SCAR 2001, MAMMOTH