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La
carriera solista: I’ve got my own song to raise
Joe Henry, ovvero uno dei songwriter più ricercati degli
ultimi tempi e allo stesso tempo uno dei produttori più
richiesti nel giro dell’american music.
Eppure questo signor cantautore, originario di Charlotte,
North Carolina, ha impiegato parecchi anni della sua carriera
prima di compiere il balzo in avanti e guadagnarsi una
stima unanime.
Il salto di quell’ostacolo che separa la terra di tutti
e di nessuno da una zona riservata, accessibile solo a
pochi meritevoli, non è però da attribuire al matrimonio
con Melanie Ciccone, sorella della pop star Madonna. |
Anzi,
a ripercorrere la sua discografia, si può dire che un
salto vero e proprio non si è mai verificato: Joe Henry
ha proceduto per gradi, con un passo misurato, degno di
chi cammina lentamente ponendosi ogni volta di fronte
un obiettivo chiaro e preciso. |
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La
sua giovinezza è quella di uno dei tanti ragazzi di provincia,
che si trasferisce nella grande città, in questo caso
Detroit, a seguito della famiglia (il padre trova un impiego
per la Chevrolet). Qua cresce, studia, incontra le sorelle
Ciccone al liceo e si laurea all’Università del Michigan.
Dopo aver sposato Melanie, si trasferisce a New York,
a Brooklyn, nel 1985 e dà inizio alla sua carriera pubblicando
“Talk of heaven” (1986), seguito l’anno successivo da
“Murder of crows” (a cui partecipano Chuck Leavell, Larry
Campbell, Van Dyke Parks, Mick Taylor). |
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Questi
primi due dischi fanno pensare ad un songwriter dotato,
che si muove in un territorio roots ritagliato tra gli
ampi spazi allora occupati da grandi proprietari come
Tom Petty, John Mellencamp e Van Morrison (sbuca una cover
di “Wild night”) e qualche podere di dimensioni ridotte
coltivato da gestori comunque D.O.C. come Jayhawks, Victoria
Williams, Vic Chesnutt e Loudon Wainwright III. |
Con
il terzo disco il suono di Henry comincia a farsi più
raffinato e l’humus roots è reso più fertile da fisarmonica,
mandolino, violino, piano e persino tromba. A “Shuffletown”
(1990) contribuisce T-Bone Burnett in qualità di produttore-arrangiatore-musicista
e comincia ad apparire più definita la predisposizione
di Henry per le pause, tanto a livello di scrittura
quanto di interpretazione.
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La
cadenza ereditata dal country e dal folk più sobrio si
sviluppa in un’introspezione romantica che produce ulteriori
risultati in “Short man’s room” (1992) e “Kindness of
the world” (1993), registrati con l’apporto dei Jayhawks
per la indipendente Mammoth Records.
Joe Henry dimostra di poter rinfrescare la tradizione
americana, ma di non essere solo il “solito” songwriter
che canta di treni, stazioni, autostrade e montagne. La
prospettiva da cui partono i suoi testi è quella di un’interiorità
disillusa a cui il mondo continua a sfuggire (“Dead to
the world”, “She always goes”). |
Il soggetto
si trova ad affrontare un microcosmo di frammenti, che
tenta di ricomporre nella nostalgia del passato o in un
sogno irreale dando vita ad una serie di bozzetti che
persino nei momenti di maggior speranza lasciano trapelare
una sensazione di smarrimento (Tonight I feel I’m floating
/ for minutes at a time / just listening to the bells
/ and trusting in the kindness of the world”). |
Dopo
un tour che lo vede passare anche dall’Italia, Joe Henry
vive una fase di transizione in cui comincia ad impegnarsi
come produttore e contemporaneamente a cercare nuove soluzioni
per la sua musica, a cui ormai i confini del country-rock
stanno stretti.
Ne escono due album, “Trampoline” (1996) e “Fuse” (1999),
che andrebbero rivalutati, soprattutto il secondo allora
considerato troppo sperimentale (con la partecipazione
di Chris Whitley, Jakob Dylan, Rami Jaffee, Carla Azar
e il missaggio di Daniel Lanois e
T-Bone Burnett). |
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Complice
anche la prima collaborazione con Madonna in un tributo
a Vic Chesnutt (“Sweet relief II”, 1996), la critica insinua
il sospetto di una parabola discendente, più pop, e sono
in molti a pensare che Joe abbia dato il meglio di sé
in “Shuffletown”, “Short man’s room” e “Kindness of the
world”. In realtà Henry sta sondando il terreno per nuovi
innesti che lo vedranno presto lavorare in modo più evoluto:
ne verranno dischi di una qualità ancor più alta, garanzia
di un marchio assolutamente personale e riconoscibile. |
Con
“Scar” il ragazzo di provincia si rivela definitivamente
per quello che è: non un rocker come tanti, che tenta
di stare al passo coi tempi, nemmeno un songwriter di
lusso, come non ne restano molti, ma un artista capace
di suonare antico e moderno, di incorporare generi classici
(blues, country, folk, jazz) in un suono denso di suggestioni
contemporanee. |
Come
ormai di regola, il disco è suonato con grandi musicisti,
questa volta però di una levatura che esula dal rock:
a Brian Blade, Brad Mehldau, Marc Ribot e Me’Shell Ndegèocello
si aggiungono un’orchestra e in veste del tutto straordinaria
anche una leggenda del jazz come Ornette Coleman.
“Scar” è il primo album in cui Joe Henry supera veramente
sé stesso.
Sulla stessa linea, a tratti ancora più avanti, si pone
“Tiny voices”, titolo che simboleggia le voci che si
aggirano nella musica e nella testa del suo autore: ancora
il jazz (Charles Mingus, Thelonius Monk), ma anche tanta
tradizione (Johnny Cash, Ray Charles). Tutti questi richiami
danno forma ad una manciata di canzoni dense ed oscure
in cui affiora latente una vena sociale: si parla di tradimenti
e di rivoluzioni a livello affettivo sottintendendo una
critica chiara al comportamento dei leader politici. Tra
le voci che si possono sentire in “Tiny voices” ci sono
quelle di Don Byron, Ron Miles, Chris Bruce e Jay Bellerose
(quest’ultimo diventerà uno dei collaboratori più fidati
di Henry). |
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Il
nuovo e per ora ultimo “Civilians” porta ad un’ulteriore
emancipazione una coscienza appunto civile insinuando
immagini di guerra con la solita discrezione figurativa.
Il suono segna un ritorno per così dire al passato (“Much
more stripped down and old fashioned”), ma non c’è alcun
passo indietro: una raffinatezza e una personalità ormai
uniche permettono di attingere allo swing, a Tin Pan Alley
e al blues senza suonare semplicisticamente retrò. La
produzione è silenziosa (“I wanted the production to be
significant but I wanted it to be invisibile. I didn’t
want you to see through an idea of the production. I wanted
the listener to be looking right at the songs”) e i temi
tipici di Henry (la notte, la pioggia, l’amore, la morte,
i fiori, le campane, la chiesa e il tempo nella sua accezione
più ampia) assumono un valore che ormai trascende il romanticismo
fine a sé stesso. |
Ad
aumentare la suggestività di arrangiamenti che suonano
magnificamente sospesi (tra il bianco e il nero) contribuiscono
Greg Leisz, Bill Frisell, Jay Bellerose, Patrick Warren,
Loudon Wainwright III, Van Dyke Parks ecc. |
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Come
sempre Henry ama lasciare del fumo negli spazi delle sue
canzoni (“much more space and smoke in the room sonically
and lyrically”), un filo sottile che rimane nell’aria
e che interroga anche ad ascolto terminato. Dopo dieci
dischi quelle sigarette fumate piano non sono ancora terminate
e non hanno intaccato l’ambiente, ma ne hanno piuttosto
carezzato le forme rinnovandone i contorni. Lasciando
un’aria affatto agre in cui non c’è odore di stantio.
E sono ormai sempre di più i musicisti che chiedono a
quel ragazzo partito dal North Carolina di trasmettere
anche ai loro album un afflato profondo che ispira antico
ed espira moderno. Quel respiro che solo i grandi sanno
dare alla loro musica. |
Le
produzioni: The man behind the curtain
Chissà
come sarebbe un album di Madonna prodotto da Joe Henry.
Almeno di quella Madonna che ha dichiarato che “Court
and Spark” di Joni Mitchell è stato un album fondamentale
per la sua formazione. Forse non lo sapremo mai, probabilmente
Joe Henry, marito di Melanie Ciccone, sorella della famosa
pop star, preferisce fermarsi a qualche scherzetto come
“Stop”, curiosa rilettura apparsa su “Scar” di “Don’t
Tell Me” di Madonna. |
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Di
certo sappiamo che Joe Henry, zitto zitto e solo grazie
al suo talento, è diventato un produttore di successo,
al pari di gente come Ethan Johns e, perchè no, T-Bone
Burnett. Probabilmente il punto di svolta in questo senso
è arrivato nel 2002, quando Joe ha deciso di prendersi
cura della musica nera, iniziando con Solomone Burke.
Da quanto tempo “The Bishop” non faceva un disco in studio
di quel livello? Cantato con un’intensità emotiva che
quasi ci eravamo dimenticati, “Don't Give Up on Me” era
un disco paragonabile solo agli “American Recordings”
di Johnny Cash. Di fatto, come Rick Rubin ha preso sotto
braccio l’immortale Johnny, Henry si è seduto acconto
al trono del “vescovo” ed insieme hanno partorito un piccolo
capolavoro. |
Se
la messa a punto dell’album di Bruce Cockburn “Nothing
but a burning light” era stata condivisa con T-Bone Burnett
e se la produzione dell’omonimo debutto di Teddy Thompson,
figlio di Linda e Richard, era passata quasi inosservata,
da Burke in poi da un lavoro prodotto da Henry tutti si
aspettano qualcosa di importante. Quel tocco di classe
e qualità che ha quasi sempre contraddistinto anche i
suoi album e arricchito in modo significativo e personale
quelli degli altri. |
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Ma
Joe Henry è un artista capace e sa bene che se lavori
a un disco di Bettye LaVette, altra artista che ha voluto
restituire al livello che le compete, devi essere capace
di tirare fuori il meglio dalle sue corde, e non darle
per forza una tua impronta sonora. Ci sono dischi che
suonano troppo poco U2 o troppo poco Springsteen, e troppo
invece Brendan O’Brien. Ecco, Joe non appartiene a quella
categoria. |
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I
dischi che ha prodotto, quelli di musica nera in particolare,
a tale proposito non va dimenticata la raccolta “I Believe
To My Soul”, hanno lasciato un segno perchè ricchi delle
migliori performance dei loro interpreti. Henry li ha
“solo” riportati a galla. Una volta in superficie, il
gioco era fatto. Scusate se è poco.
Probabilmente è diverso, ma non meno efficace, quanto,
fatto con artisti che, almeno apparentemente, gli erano
artisticamente più vicini. E stiamo parlando di Ani DiFranco,
di Aimee Mann, di Jim White e dei recentissimi lavori
di Loudon Wainwright III e Mary Gauthier. |
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Insomma oggi lo cercano
in molti; lui confessa che gli piacerebbe lavorare a
un disco di Prince e noi proviamo a chiedergli di fare
il primo vero miracolo bianco: Joe, tu che lo conosci
bene, che hai anche suonato in un paio dei suoi dischi,
prova a rimettere le ali a Phil Cody. Noi non lo abbiamo
dimenticato e le sue canzoni ci mancano un pò.
“A
lot of people say, ‘I can’t believe you made that record
in four days,’ and I tell them, ‘if we’d had six days,
it would have been a disaster”. (Joe Henry)
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Discografia da solista
“Talk of heaven”
(Astor, 1986)
“Murder of crows” (A&M / Mammoth, 1989)
“Shuffletown” (A&M, 1990)
“Short man’s room” (Mammoth, 1992)
“Kindness of the world” (Mammoth, 1993)
“Trampoline” (Mammoth, 1996)
”Fuse” (Mammoth, 1999)
“Scar” (Mammoth, 2001)
“Tiny voices” (Anti, 2003)
“Civilians” (Anti, 2007)
Discografia da
produttore
Bruce Cockburn – “Nothing but a burning light” (Columbia,
1991)
Kristin Hersh – “Strange angels” (Rykodisc, 1998)
Shivaree – “I oughta give you a shot in the head” (Capitol,
1999)
Teddy Thompson – “Teddy Thompson” (Virgin, 2000)
John Doe – “Dim stars bright sky” (Artist Direct, 2002)
Solomon Burke – “Don’t give up on me” (Fat Possum, 2002)
Jim White – “Drill a hole in that substrate” (Luaka Bop, 2004)
Ani Difranco – “Knuckle down” (Righteous Babe, 2004)
Aimee Mann – “The forgotten arm” (Super Ego, 2005)
Susan Tedeschi – “Hope and desire” (Verve, 2005)
Bettye Lavette – “I’ve got my own hell to raise” (Anti, 2005)
A.A.V.V. – “I believe to my soul” (Rhino, 2005)
Elvis Costello / Allen Toussaint – “The River in Reverse”
(2006, Verve)
Loudon Wainwright III – “Strange weirdos” (Concord Music,
2007)
Mary Gauthier – “Between daylight and dark” (Lost Highway,
2007)
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