Joe Henry

special

Joe Henry A proposito di Mr. Henry

01/10/2007 di Chirstian Verzeletti e Maurizio Pratelli

#Joe Henry#Americana #Country folk


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"A proposito di Mr. Henry"


Per tanti motivi quella di Joe Henry è una storia in bianco e nero, che la si legga ascoltando i suoi dischi da
solista o i suoi lavori come produttore. È una storia che non si è svolta sotto le luci della ribalta, ma piuttosto
tra i chiaroscuri di angoli frequentati da pochi. Due capitoli paralleli: da una parte una manciata di album
soppesati, suonati col passo misurato di chi si aggira per vie poco battute, dall'altra artisti minori,
riscoperti con lo sguardo di chi sa scorgere la luce nell'ombra.

La carriera solista: I’ve got my own song to raise
Joe Henry, ovvero uno dei songwriter più ricercati degli ultimi tempi e allo stesso tempo uno dei produttori più richiesti nel giro dell’american music.
Eppure questo signor cantautore, originario di Charlotte, North Carolina, ha impiegato parecchi anni della sua carriera prima di compiere il balzo in avanti e guadagnarsi una stima unanime.
Il salto di quell’ostacolo che separa la terra di tutti e di nessuno da una zona riservata, accessibile solo a pochi meritevoli, non è però da attribuire al matrimonio con Melanie Ciccone, sorella della pop star Madonna.
Anzi, a ripercorrere la sua discografia, si può dire che un salto vero e proprio non si è mai verificato: Joe Henry ha proceduto per gradi, con un passo misurato, degno di chi cammina lentamente ponendosi ogni volta di fronte un obiettivo chiaro e preciso.
La sua giovinezza è quella di uno dei tanti ragazzi di provincia, che si trasferisce nella grande città, in questo caso Detroit, a seguito della famiglia (il padre trova un impiego per la Chevrolet). Qua cresce, studia, incontra le sorelle Ciccone al liceo e si laurea all’Università del Michigan. Dopo aver sposato Melanie, si trasferisce a New York, a Brooklyn, nel 1985 e dà inizio alla sua carriera pubblicando “Talk of heaven” (1986), seguito l’anno successivo da “Murder of crows” (a cui partecipano Chuck Leavell, Larry Campbell, Van Dyke Parks, Mick Taylor).

Questi primi due dischi fanno pensare ad un songwriter dotato, che si muove in un territorio roots ritagliato tra gli ampi spazi allora occupati da grandi proprietari come Tom Petty, John Mellencamp e Van Morrison (sbuca una cover di “Wild night”) e qualche podere di dimensioni ridotte coltivato da gestori comunque D.O.C. come Jayhawks, Victoria Williams, Vic Chesnutt e Loudon Wainwright III.

Con il terzo disco il suono di Henry comincia a farsi più raffinato e l’humus roots è reso più fertile da fisarmonica, mandolino, violino, piano e persino tromba. A “Shuffletown” (1990) contribuisce T-Bone Burnett in qualità di produttore-arrangiatore-musicista e comincia ad apparire più definita la predisposizione di Henry per le pause, tanto a livello di scrittura quanto di interpretazione.

La cadenza ereditata dal country e dal folk più sobrio si sviluppa in un’introspezione romantica che produce ulteriori risultati in “Short man’s room” (1992) e “Kindness of the world” (1993), registrati con l’apporto dei Jayhawks per la indipendente Mammoth Records.
Joe Henry dimostra di poter rinfrescare la tradizione americana, ma di non essere solo il “solito” songwriter che canta di treni, stazioni, autostrade e montagne. La prospettiva da cui partono i suoi testi è quella di un’interiorità disillusa a cui il mondo continua a sfuggire (“Dead to the world”, “She always goes”).
Il soggetto si trova ad affrontare un microcosmo di frammenti, che tenta di ricomporre nella nostalgia del passato o in un sogno irreale dando vita ad una serie di bozzetti che persino nei momenti di maggior speranza lasciano trapelare una sensazione di smarrimento (Tonight I feel I’m floating / for minutes at a time / just listening to the bells / and trusting in the kindness of the world”).
Dopo un tour che lo vede passare anche dall’Italia, Joe Henry vive una fase di transizione in cui comincia ad impegnarsi come produttore e contemporaneamente a cercare nuove soluzioni per la sua musica, a cui ormai i confini del country-rock stanno stretti.
Ne escono due album, “Trampoline” (1996) e “Fuse” (1999), che andrebbero rivalutati, soprattutto il secondo allora considerato troppo sperimentale (con la partecipazione di Chris Whitley, Jakob Dylan, Rami Jaffee, Carla Azar e il missaggio di Daniel Lanois e
T-Bone Burnett).
Complice anche la prima collaborazione con Madonna in un tributo a Vic Chesnutt (“Sweet relief II”, 1996), la critica insinua il sospetto di una parabola discendente, più pop, e sono in molti a pensare che Joe abbia dato il meglio di sé in “Shuffletown”, “Short man’s room” e “Kindness of the world”. In realtà Henry sta sondando il terreno per nuovi innesti che lo vedranno presto lavorare in modo più evoluto: ne verranno dischi di una qualità ancor più alta, garanzia di un marchio assolutamente personale e riconoscibile.
Con “Scar” il ragazzo di provincia si rivela definitivamente per quello che è: non un rocker come tanti, che tenta di stare al passo coi tempi, nemmeno un songwriter di lusso, come non ne restano molti, ma un artista capace di suonare antico e moderno, di incorporare generi classici (blues, country, folk, jazz) in un suono denso di suggestioni contemporanee.
Come ormai di regola, il disco è suonato con grandi musicisti, questa volta però di una levatura che esula dal rock: a Brian Blade, Brad Mehldau, Marc Ribot e Me’Shell Ndegèocello si aggiungono un’orchestra e in veste del tutto straordinaria anche una leggenda del jazz come Ornette Coleman.
“Scar” è il primo album in cui Joe Henry supera veramente sé stesso. 
Sulla stessa linea, a tratti ancora più avanti, si pone “Tiny voices”, titolo che  simboleggia le voci che si aggirano nella musica e nella testa del suo autore: ancora il jazz (Charles Mingus, Thelonius Monk), ma anche tanta tradizione (Johnny Cash, Ray Charles). Tutti questi richiami danno forma ad una manciata di canzoni dense ed oscure in cui affiora latente una vena sociale: si parla di tradimenti e di rivoluzioni a livello affettivo sottintendendo una critica chiara al comportamento dei leader politici. Tra le voci che si possono sentire in “Tiny voices” ci sono quelle di Don Byron, Ron Miles, Chris Bruce e Jay Bellerose (quest’ultimo diventerà uno dei collaboratori più fidati di Henry).
Il nuovo e per ora ultimo “Civilians” porta ad un’ulteriore emancipazione una coscienza appunto civile insinuando immagini di guerra con la solita discrezione figurativa. Il suono segna un ritorno per così dire al passato (“Much more stripped down and old fashioned”), ma non c’è alcun passo indietro: una raffinatezza e una personalità ormai uniche permettono di attingere allo swing, a Tin Pan Alley e al blues senza suonare semplicisticamente retrò. La produzione è silenziosa (“I wanted the production to be significant but I wanted it to be invisibile. I didn’t want you to see through an idea of the production. I wanted the listener to be looking right at the songs”) e i temi tipici di Henry (la notte, la pioggia, l’amore, la morte, i fiori, le campane, la chiesa e il tempo nella sua accezione più ampia) assumono un valore che ormai trascende il romanticismo fine a sé stesso.
Ad aumentare la suggestività di arrangiamenti che suonano magnificamente sospesi (tra il bianco e il nero) contribuiscono Greg Leisz, Bill Frisell, Jay Bellerose, Patrick Warren, Loudon Wainwright III, Van Dyke Parks ecc.
Come sempre Henry ama lasciare del fumo negli spazi delle sue canzoni (“much more space and smoke in the room sonically and lyrically”), un filo sottile che rimane nell’aria e che interroga anche ad ascolto terminato. Dopo dieci dischi quelle sigarette fumate piano non sono ancora terminate e non hanno intaccato l’ambiente, ma ne  hanno piuttosto carezzato le forme rinnovandone i contorni. Lasciando un’aria affatto agre in cui non c’è odore di stantio.
E sono ormai sempre di più i musicisti che chiedono a quel ragazzo partito dal North Carolina di trasmettere anche ai loro album un afflato profondo che ispira antico ed espira moderno. Quel respiro che solo i grandi sanno dare alla loro musica.

 

    Le produzioni: The man behind the curtain

Chissà come sarebbe un album di Madonna prodotto da Joe Henry. Almeno di quella Madonna che ha dichiarato che “Court and Spark” di Joni Mitchell è stato un album fondamentale per la sua formazione. Forse non lo sapremo mai, probabilmente Joe Henry, marito di Melanie Ciccone, sorella della famosa pop star, preferisce fermarsi a qualche scherzetto come “Stop”, curiosa rilettura apparsa su “Scar” di “Don’t Tell Me” di Madonna.
Di certo sappiamo che Joe Henry, zitto zitto e solo grazie al suo talento, è diventato un produttore di successo, al pari di gente come Ethan Johns e, perchè no, T-Bone Burnett. Probabilmente il punto di svolta in questo senso è arrivato nel 2002, quando Joe ha deciso di prendersi cura della musica nera, iniziando con Solomone Burke.
Da quanto tempo “The Bishop” non faceva un disco in studio di quel livello? Cantato con un’intensità emotiva che quasi ci eravamo dimenticati, “Don't Give Up on Me” era un disco paragonabile solo agli “American Recordings” di Johnny Cash. Di fatto, come Rick Rubin ha preso sotto braccio l’immortale Johnny, Henry si è seduto acconto al trono del “vescovo” ed insieme hanno partorito un piccolo capolavoro.
Se la messa a punto dell’album di  Bruce Cockburn “Nothing but a burning light” era stata condivisa con T-Bone Burnett e se la produzione dell’omonimo debutto di Teddy Thompson, figlio di Linda e Richard, era passata quasi inosservata, da Burke in poi da un lavoro prodotto da Henry tutti si aspettano qualcosa di importante. Quel tocco di classe e qualità che ha quasi sempre contraddistinto anche i suoi album e arricchito in modo significativo e personale quelli degli altri.
Ma Joe Henry è un artista capace e sa bene che se lavori a un disco di Bettye LaVette, altra artista che ha voluto restituire al livello che le compete, devi essere capace di tirare fuori il meglio dalle sue corde, e non darle per forza una tua impronta sonora. Ci sono dischi che suonano troppo poco U2 o troppo poco Springsteen, e troppo invece Brendan O’Brien. Ecco, Joe non appartiene a quella categoria.

I dischi che ha prodotto, quelli di musica nera in particolare, a tale proposito non va dimenticata la raccolta “I Believe To My Soul”, hanno lasciato un segno perchè ricchi delle migliori performance dei loro interpreti. Henry li ha “solo” riportati a galla. Una volta in superficie, il gioco era fatto. Scusate se è poco.
Probabilmente è diverso, ma non meno efficace, quanto, fatto con artisti che, almeno apparentemente, gli erano artisticamente più vicini. E stiamo parlando di Ani DiFranco, di Aimee Mann, di Jim White e dei recentissimi lavori di Loudon Wainwright III e Mary Gauthier.

Insomma oggi lo cercano in molti; lui confessa che gli piacerebbe lavorare a un disco di Prince e noi proviamo a chiedergli di fare il primo vero miracolo bianco: Joe, tu che lo conosci bene, che hai anche suonato in un paio dei suoi dischi, prova a rimettere le ali a Phil Cody. Noi non lo abbiamo dimenticato e le sue canzoni ci mancano un pò.

“A lot of people say, ‘I can’t believe you made that record in four days,’ and I tell them, ‘if we’d had six days, it would have been a disaster”. (Joe Henry)

Discografia da solista
“Talk of heaven” (Astor, 1986)
“Murder of crows” (A&M / Mammoth, 1989)
“Shuffletown” (A&M, 1990)
“Short man’s room” (Mammoth, 1992)
“Kindness of the world” (Mammoth, 1993)
“Trampoline” (Mammoth, 1996)
”Fuse” (Mammoth, 1999)
“Scar” (Mammoth, 2001)
“Tiny voices” (Anti, 2003)
“Civilians” (Anti, 2007)


Discografia da produttore
Bruce Cockburn – “Nothing but a burning light” (Columbia, 1991)
Kristin Hersh – “Strange angels” (Rykodisc, 1998)
Shivaree – “I oughta give you a shot in the head” (Capitol, 1999)
Teddy Thompson – “Teddy Thompson” (Virgin, 2000)
John Doe – “Dim stars bright sky” (Artist Direct, 2002)
Solomon Burke – “Don’t give up on me” (Fat Possum, 2002)
Jim White – “Drill a hole in that substrate” (Luaka Bop, 2004)
Ani Difranco – “Knuckle down” (Righteous Babe, 2004)
Aimee Mann – “The forgotten arm” (Super Ego, 2005)
Susan Tedeschi – “Hope and desire” (Verve, 2005)
Bettye Lavette – “I’ve got my own hell to raise” (Anti, 2005)
A.A.V.V. – “I believe to my soul” (Rhino, 2005)
Elvis Costello / Allen Toussaint – “The River in Reverse” (2006, Verve)
Loudon Wainwright III – “Strange weirdos” (Concord Music, 2007)
Mary Gauthier – “Between daylight and dark” (Lost Highway, 2007)