Joe Henry All The Eye Can See
2023 - eraMUSIC
#Joe Henry#Americana#Songwriting #earMusic #All The Eye Can See #Patrick Warren #David Piltch #Levon Henry
Questo lavoro è nato grazie a un modus operandi che forse un giorno potremmo storicizzare nella categoria dei “Covid records”. Chiusi forzatamente nelle loro case-studio, i musicisti hanno costruito dischi senza mai incrociarsi dal vivo ma intrecciando e sovrapponendo spunti, idee, progressioni e parti strumentali. Un processo che può apparire un po' freddo e meccanico ma che in All The Eye Can See sembra funzionare alla perfezione anche senza un'interazione diretta tra i protagonisti, e forse il merito va anche all'affiatamento di un team con cui Henry si confronta da anni: dai collaboratori storici come Patrick Warren, Jay Bellerose, David Piltch, Marc Ribot, Lisa Hannigan al figlio Levon Henry (sax e clarinetto), fino ad alcuni invitati di gran pregio come Daniel Lanois e Bill Frisell. A tenere insieme il tutto c'è ovviamente l'afflato poetico dei suoi testi. Ogni verso fa storia sé, aprendo un mondo di richiami e di risonanze interiori e al tempo stesso sbocciando con naturalezza (non certo con logica razionale) nel successivo, lungo un cammino che si specchia con efficacia nella musica. È difficile trovare nelle canzoni di Henry un riff di facile presa, una melodia che si attacca immediatamente al cuore e al cervello, uno scorcio virtuosistico a sé stante. Le canzoni emergono pian piano, senza strappi e senza forzare, prendendo magicamente forma dalle ombre. A dimostrarlo sarebbero sufficienti le prime quattro tracce: il preludio strumentale tra arcaismo folk e musica classica, imbevuto di atmosfere waitsiane; la forma quasi teatrale di Song That I Know, incardinata sull'intreccio di piano e fisarmonica, con echi un po' mediterranei; l'approccio più diretto, chitarra e voce, di Mission, che stempera i toni; il folk caldissimo di Yearling, marchiato a fuoco dall'incedere del violino. In Karen Dalton si apprezza sullo sfondo il lavoro rumoristico-atmosferico delle chitarre e quello, leggero ma decisivo, delle percussioni. In O Beloved sono invece gli archi a farsi padroneggiare con cura, mantenendo fede all'assunto iniziale di lavorare sulle orchestrazioni senza sacrificare il cuore della canzone.
La formula che Henry mantiene dall'inizio alla fine del disco è quella della meditazione, della confessione intima e dell'elegia, modulandola con classe e mestiere. La sua sintesi dei diversi stili e vernacoli della musica Americana si può dire ormai perfettamente compiuta e squisitamente autoriale, nel senso che ha originato un lirismo personalissimo, riconoscibile fin dalle prime note. Forse a questo punto è lecito aspettarsi un passaggio successivo, un ulteriore scarto nella sua carriera che attinga a nuove ispirazioni o che recuperi, con la maestria che lo contraddistingue, colori, ritmi, idee e invenzioni del passato. Un pezzo come Small Wonder, con le sue atmosfere più scure, l'incedere più bluesy e quel piano sgangherato nel finale, apre forse una finestra su questo futuro.