Joe Henry Invisible Hour
2014 - Work Song
Non sono molti, attualmente, gli autori in grado di rinverdire i fasti del folk cantautoriale americano, ma la carriera di Joe Henry parla chiaro, ha acquisito con gli anni una classicità stilistica che in pochi davvero possono vantare. Invisible Hour, suo tredicesimo album, è stato registrato, in soli quattro giorni, nel suo studio di Pasadena insieme ai suoi fedeli musicisti ( Jay Bellerose, Greg Leisz, Jennifer Condos e David Piltch).
Joe ha dato più spazio alla spontaneità ma senza concedere molto in termini di facile orecchiabilità ed immediatezza. Bastano i primi accordi di Sparrow per capire che il suo autore è tornato sui suoi vecchi passi, quelli che ci riportano a quel magnifico incanto acustico che fu Shuffletown (1990). E come in quel disco si ritrova una lucente sobrietà musicale, sospesa in un equilibrio di suoni emozionali e forse mai così funzionali. L’autocompiacimento che iniziava a trasparire (qua e là) nelle sue ultime produzioni non era un mistero nemmeno per lui, era necessario ritornare all'ispirazione, alle canzoni, all'inizio di tutto.
Le coordinate stilistiche del disco si rinnovano nei suggestivi territori folk acustici di Grave Angels e della splendida Swayed dove gli aspetti poetici incontrano finezze ed espressività morrisoniane o meglio “astrali”, ciò si materializza in modo omogeneo e coraggioso. La lunghissima Sign dilata ulteriormente l'atmosfera, tra luci esili e penombre che si alternano.
Con le caratteristiche tipiche dello stream of consciousness, i testi “viaggiano” inconsciamente verso un'eternità effimera, parlando di unione, matrimonio e di un amore salvifico che fa da traino a pezzi come Lead Me On, con ospite Lisa Hannigan, ovvero il pezzo più diretto e commovente del disco. La melodia, la soave grazia degli accordi acustici, la dolce e al tempo stesso graffiante espressività vocale mostrano davvero un mix personale bilanciato tra Dylan e Van Morrison, da sempre suoi principali artisti di riferimento.
Tra coralità rurali (Plainspeak ), riferimenti waitsiani (Alice) e vagamente biblici (Water Between Us ), non ci sono cedimenti compositivi e la finezza della produzione, in cui è affermatissimo da anni, incanta per l'ennesima volta. Intimo, spirituale ed elettrizzante, la bellezza intrinseca del disco, comunque, si rivela nella sua pienezza con il seguire degli ascolti. Infatti, il suo portarci ad ascoltare e riascoltare, come ci fosse sempre qualcosa di nuovo da cogliere, da scoprire, passo dopo passo fino a che il disco non ti entra sottopelle, evidenzia una enigmaticità e uno spessore compositivo decisamente all'altezza dei precedenti capolavori dell' artista come Tiny Voices (2003) o Scar (2001) , entrambi vertici di un sound cercato e perfezionato con gli anni.
Musica fatta di verità e spontaneità (principi cari al folk, al jazz e al blues), tra disagio ed incanto, come un frutto dell'anima colto all' improvviso. In definitiva Invisible Hour si rivela tra le sue cose migliori di sempre, un sound che ritorna ad essere essenza naturale, come l' acqua di un ruscello, dove gli ornamenti si fanno piccoli e funzionali, senza fronzoli e tanto cuore. Senza dubbio uno dei dischi dell'anno.