Ermal Meta Umano
2016 - Mescal
Dopo lo scioglimento del gruppo e aver intrapreso una strada da autore lastricata di successi, che lo ha portato a duettare con Patty Pravo e a scrivere per tanti artisti del pop da classifica, seguendo le orme già calcate in questi anni per es. da nomi come Pacifico e Francesco Bianconi dei Baustelle, Ermal Meta pubblica finalmente il suo primo album da solista. Ancora una volta c’è un po’ (o tanta) della sua anima sparpagliata tra le note: la scelta di un synth-pop frizzante, l’opzione prevalente a favore di sonorità dotate di quella raffinatezza lieve e levigata anni ‘80, di quella “misura” equilibrata che rendeva i brani ballabili e freschi, piacevolmente accattivanti, fa in modo però che giochi un po’ a nascondino.
È come se l’artista di origini albanesi, naturalizzato italiano, globalmente in questo primo lavoro da solista ci invitasse a cercarlo nelle sue canzoni, a non fermarci al primo ascolto per scoprire l’essenza di quell’umanità richiamata dal titolo del cd, trasfigurata e diffusa in quel contorno di cieli, montagne e spazi cosmici racchiuso nella sua silhouette nel suggestivo e artistico collage di copertina. Eccoci allora a trovarne e ritracciarne il profilo, mentre i suoni si fanno spesso appunto più sintetici e siderali del passato e con l’ironia e la leggerezza di alcuni versi sembrano il “calore di fiamma lontana” di foscoliana memoria, in cui le inquiete passioni giovanili trovavano un filtro, se non una maschera, nella maturità.
Quell’umanità è allora nelle immagini e nei ricordi della delicata A parte te, nelle memorie d’infanzia del singolo sanremese Odio le favole, nei “sogni legati al cuscino”, nei piccoli gesti d’amore o nelle notti di parole per immaginare un “futuro bellissimo” al di là delle lacrime amare che inchiodavano alla realtà, in quello sfondo dolceamaro di illusioni superate da un presente concreto differente, da un’altra vita forse felice, lungo un altro percorso e dopo altri ostacoli. Quell’umanità è nel bisogno d’amore, antidoto per le amarezze della vita, che anima la convincente ed eterea Gravita con me, o ancora nella necessità di un “pieno di speranza”, di un sostegno quando serve, nella fortuna di essere amati, che emerge con semplicità a fronte della breve comparsa di uno sconosciuto che “con gli occhi incollati a terra” racconta “come ha perso l’amore della sua vita” in Pezzi di paradiso.
L’umanità, quasi esorbitante nella sua tangibilità ed evidenza, è nella consapevolezza di fragilità e debolezze, di eventuali colpe, nel freddo nell’anima rinnegata al centro della title-track, in cui torna quell’equilibrio instabile di sogni e realismo, di lampioni e stelle già sullo sfondo del singolo presentato all’Ariston. L’umanità si fa scoprire nuda nel disarmante testo di Lettera a mio padre, che esorcizza un dolore oscuro con cui bisognava fare prima o poi i conti e lo libera nella catarsi della consapevolezza che sulle cicatrici si attaccano le ali.
C’è grande umanità nei ritratti ricorrenti di una o più figura femminile, affascinante e seducente, indipendente e necessaria, sfuggente e presente, come una visione e una mano sulla spalla; c’è un’umanità corale nelle brevi, ma efficaci pennellate sociali (“chi ti rompe i denti per sentirsi duro, chi ti ruba il pane per sentirsi furbo” in Umano, o nell’ampio quadro della prima strofa dell’electro-pop colorato di Volevo dirti).
Quel titolo, Umano, è una sfida ad andare alla ricerca di queste tracce di umanità, di piccoli frammenti intensi e piccoli ritagli di poesia, di fotografie emotive vivide immerse in un’eleganza setosa r’n’b, in un efficace cantautorato pop (Pezzi di paradiso tra l’altro ha strofe quasi parlate e lorenzocherubiniane), tra melodie orecchiabili che si avvitano a fondo nel cervello ascolto dopo ascolto e ballate che squadernano incanto, come la conclusiva Schegge, dotata di grazia cinematica e avvolgente. Con gli acuti killer delle strofe suadenti di Bionda e con certi momenti di A parte te (in cui un’enfasi emozionale si fa strada quasi involontariamente ed esplode, pur tra suoni di grande sobrietà), è uno dei brani che consente alla voce dell’artista di dispiegarsi libera, laddove ha mostrato invece versatilità in questo disco anche a “contenersi” in metriche e ritmiche più semplici rispetto al fiorire di acuti e falsetti con cui si era fatto apprezzare in passato. Quel modo di cantare aveva provocato frequenti accostamenti non sempre molto calzanti, che non evidenziavano l’originalità di quella voce acidula e calda che sa di spazi selvaggi e “praterie da percorrere a cavallo”, ferite e fessure, rabbia e amore; qui ha modo di illustrare tutte queste sfumature della sua umanità, prestandosi anche persino a un cantato volutamente ruvido e roco (v. la titletrack).
La lotta contro i mostri nel sangue e nella fantasia, i demoni del passato e del presente hanno portato un ragazzo a diventare un uomo.